Isernia è una città dal tempo geometrico, forgiata "dalla perenne peripezia delle armi poi dall'ingiurie degli anni", come dice una lapide sulla facciata della chiesa di S. Chiara. Le bombe l'hanno disegnata con il tratto secco delle esplosioni, con la geometria infantile della guerra. Le vestigia pagane sono risorte per miracolo di memoria tra rovine e impronte. Una comunità resta marchiata dai bombardamenti anche a distanza di generazioni, nell'architettura, nell'urbanistica, nell'anima.
C'è un'intima relazione tra le geometrie urbane e le geometrie delle emozioni, dell'intelletto stesso. Le ragioni del sentire seguono vicoli stretti, costeggiano muri inesistenti. Camminando per le piazze attraversiamo muri fantasma e viene da chiedersi se non siamo piuttosto noi fantasmi ad attraversare solidi muri fatti di memoria.
La memoria di Isernia è tagliata come i muri delle case crollate. I sensi di colpa, la necessità di rimozione si toccano come bubboni della pelle che più gratti più danno fastidio e la pelle è squartata dai continui tentativi di strappare via il bubbone.
La pelle di Isernia è lacerata, oggi a settant'anni di distanza, da una guerra-maledizione che ancora manca il peccato commesso per aver subito tanta ingiuria. "Che ci possiamo fare?" dice la vecchia signora che nel giorno di mercato vende verdure sotto l'arco di pietra. "Che ci possiamo fare?" per un vento insistente che porta via l'ombrellone su questo crinale tra due abissi che la pioggia sarebbe già una benedizione a calmare il vento. "Che ci possiamo fare?" è la domanda fatalista per un destino subito decenni prima che una bava di vento fa riaffiorare.
Settant'anni! Basta tendere una mano e li tocchi con la punta delle dita. In questi posti dove è passata la Storia, sono state sacrificate le storie e ogni famiglia ha la sua croce, il suo Golgota da scalare ogni giorno. Ogni famiglia ha il suo altare dove Dio viene a chiedere perdono.