Le notizie che arrivavano da Parigi nei giorni dell’attentato alla redazione di “Charlie Hebdo” e dell’attacco al supermercato kosher di Porte de Vincennes hanno calamitato completamente la mia attenzione, lasciandomi addosso l’impotenza tipica di chi tra le mani, come uniche ‘armi’, ha una matita, una penna, al massimo un mouse. Ben poca roba al cospetto di un kalashnikov…
La sensazione di vivere un momento che nella sua tragica atrocità sarebbe passato alla Storia, quella con la “S” maiuscola, mi ha accompagnato per giorni e giorni, sovrapponendo all’incredulità e al dolore dei primi momenti una strana (ma mica poi tanto) voglia di capire.
Dal 7 gennaio 2015 ci siamo scoperti tutti un po’ Charlie e con il passare delle ore anche un po’ Ahmed, e persino genitori dei tre assassini. Un fiume in piena di emozioni e parole che hanno innescato critiche e polemiche destinate a proseguire chissà per quanto tempo ancora, e il cui più grande pericolo, a mio parere, è di allontanare tutti noi dal momento della riflessione.
Una riflessione che non è ripiegamento, ma ricerca di risposte (e nella migliore delle ipotesi, di soluzioni), e che per me in questi giorni ha significato riportare alla mente un’esperienza vissuta dieci anni fa. Mi trovavo a Barcellona, era l’estate del 2005 e tra le mete del mio tour da turista scelsi di visitare una mostra del CCCB, il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona.
A spingermi nella decisione fu una certa curiosità e la cieca fiducia nelle scelte artistiche del CCCB, uno spazio che ho imparato ad amare negli anni. Si trattava della mostra “Occident vist des d’Orient” un’esposizione dedicata alla visione del mondo occidentale, in particolare di quello europeo, diffusa nelle società islamiche nel corso dei secoli. Un’iniziativa artistica (definita da Alan Riding del New York Times “groundbreaking”) che provava a offrire una nuova chiave di lettura al complesso rapporto tra Islam e Occidente all’indomani dell’11 settembre.
In mostra: miniature, manoscritti, dipinti, fotografie d’epoca insieme alle opere realizzate per l’occasione da nove artisti contemporanei (Marjane Satrapi, Zoulikha Bouabdellah, Mohamed el Baz, Shadi Ghadirian, Jellel Gasteli, Bouchra Khalili, Hassan Musa, Khosrow Hassanzadeh, Touhami Ennadre), e alle interviste/testimonianze di cinque scrittori (Houda Barakât, Nilufer Gölë, Sorour Kasmaï, Daryush Shayegan and Salah Stétié), tutti selezionati dal curatore dell’esposizione, il poeta e scrittore tunisino Abdelwahab Meddeb. Meddeb è morto pochi mesi fa a Parigi, dove insegnava Letteratura comparata all’Università Paris X; era anche l’animatore e conduttore di una trasmissione di radio France Culture dedicata alle culture islamiche.
L’ennesima sconfitta della cultura come strumento (e opportunità) di crescita civile? Forse. Ma questo non significa che bisogna smettere di raccontare, dipingere, fotografare, comporre musica, danzare, organizzare mostre (visionarie e intelligenti)… perché il mondo è troppo impegnato a difendersi e/o attaccare eserciti di nemici.
Islam e Occidente non dialogheranno mai? La scrittrice iraniana Sorour Kasmaï, nella sua intervista, dà una chiave di lettura originale alla differenza tra questi due mondi, basata sull’idea che l’Occidente ha avuto il romanzo, mentre l’Oriente ha scelto la poesia: “The novel develops the democratic imagination because it offers various paths, various destinies, while poetry is despotic”.
Quanto possa essere vera questa spiegazione non sono in grado di dirlo, quello di cui sono sicura è che mai come oggi avremmo bisogno di più narratori e poeti che di soldati armati. Da una parte e dall’altra.