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islamisti: oggi la decapitazione di James Foley, nel 2002 il lento sgozzamento di Daniel Pearl

Creato il 22 agosto 2014 da Paolo Ferrario @PFerrario

il giornalista del Wall Street Journal Daniel Pearl rapito, imprigionato e brutalmente assassinato nel gennaio 2002 per tre concomitanti motivi:

era americano,

era ebreo

e stava raccogliendo informazioni sulla collusione fra Al Quaeda e il Pakistan per l’uso delle armi atomiche e biologiche. Come dessert, dopo l’antipasto delle torri gemelle.

Mi appunto qui un estratto dello straordinario libro di filosofia/giornalismo:
Bernard – Henry Lévy, Chi ha ucciso Daniel Pearl?, Rizzoli 2003.
Tanto per ricordarmi con chi abbiamo a che fare a partire dal ciclo 11 settembre 2001 – ?.

Tanto per ricordarmi, nel caso me lo dimenticassi, perché preferisco gli sceriffi americani ai pacifisti.
«Ripeti con me» gli dice allora Bukhari estraendo un foglio dalla tasca. Fa cenno di alzarsi a uno degli yemeniti, che ha in mano una videocamera che Danny, infastidito dal su­dore che gli cola tra le ciglia e si mescola alle lacrime acce­candolo, scambia inizialmente per l’arma che dovrà ucci­derlo.

«”Mi chiamo Daniel Pearl, sono un ebreo americano e vivo a Encino, in California.”»

Daniel ripete. È indolenzito e senza fiato, ma ripete.

«Devi dire: “Per parte di padre provengo da una famiglia di sionisti, mio padre è ebreo, mia madre è ebrea, io sono ebreo”.»

Dunque questa frase, dettata da un Bukhari improvvisa­mente comprensivo, quasi umano, con la mano sul mento come se tutta la scena fosse per lui motivo di riflessione.

«Noi americani non possiamo continuare a pagare per la politica del nostro governo.»

Poi quest’altra sequela, una a una, con pazienza, come si fa con un bambino: «L’appoggio incondizionato a Israele… Ventiquattro veti per giustificare i massacri di bambini in­nocenti… L’appoggio ai regimi dittatoriali del mondo arabo e musulmano… La presenza americana in Afghanistan…».

Eccoci. È finita. Lo yemenita spegne la videocamera.

Gli permetteranno di sedersi, adesso? Gli daranno un po’ d’acqua? Sta tanto male.

È a quel punto che si verifica un evento straordinario.

Bukhari va a regolare la fiamma dei lumi a petrolio che di colpo proiettano una luce molto più viva.

Da un ordine perentorio a Fazal che, da quando erano entrati nella stanza, si era collocato nell’angolo insieme agli yemeniti, rannicchiato su se stesso come se avesse freddo. Subito l’uomo si alza e va a piazzarsi direttamente alle sue spalle, con gli occhi fissi e spalancati.

A un suo segnale, anche gli altri pachistani si alzano in si­lenzio, ed escono. Danny intravede appena, dietro la porta subito richiusa, un bagliore d’alba, un grande cielo in movi­mento, un volo d’uccelli che si disperdono. Percepisce ap­pena, sul proprio corpo tumefatto dai colpi, la benefica fre­schezza della prima brezza che annuncia il sorgere del sole.

Oltre a Fazal Karim, nella stanza restano soltanto il ca­meraman yemenita, che si affanna intorno alla videoca­mera, e gli altri due yemeniti, che estraggono il pugnale dal fodero e si alzano in piedi: uno va a collocarsi alle sue spalle, accanto a Fazal Karim, l’altro alla sua sinistra, vicinissimo, quasi incollato a lui, con l’arma nella mano destra.

Di colpo Danny la scorge.

Fino a quel momento non aveva potuto vederla perché era in ombra, e comunque senza occhiali non ha mai visto a più di due metri di distanza.

Vede gli occhi dell’uomo brillanti, febbrili, troppo affos­sati nelle orbite, stranamente supplichevoli: per un attimo si chiede se non sia stato drogato anche lui.

Vede il mento fiacco, le labbra agitate da un lieve tre­molio, le orecchie troppo grandi, il naso ossuto, i capelli radi e neri, color catrame.

Vede la mano, grande, vellutata, con le nocche nodose, le unghie nere e una lunga cicatrice, granulosa, che corre dal pollice al polso e sembra tagliare la mano in due.

Infine vede il coltello. Non aveva mai guardato un coltello così da vicino, pensa tra sé. Il manico di corno di ‘ vacca. Il cuoio. Una scheggiatura in prossimità del manico. Un po’ di ruggine. E poi un’altra cosa: lo yemenita tira su con il naso. Strizza l’occhio e contemporaneamente, come se tenesse il tempo, non smette di tirare su con il naso. Che abbia il raffreddore? No, è un tic. Pensa: «Che strano, è la prima volta che vedo un musulmano con un tic». Pensa anche tra sé: «Gli antichi carnefici… era una buona idea mascherare gli antichi carnefici, incappucciarli…». Fa caldo. Gli duole la testa. Ha una gran voglia di dormire.

La spia verde della videocamera si accende.

Fazal gli si pone di fronte, gli lega i polsi, e poi, tornato alle sue spalle, gli afferra saldamente i capelli.

La nuca, pensa Danny scuotendo il capo per tentare di divincolarsi. Il centro della voluttà, il peso del mondo, l’oc­chio nascosto del Talmud, l’ascia del boia.

Gli occhi di quest’uomo, pensa ancora mentre guarda lo yemenita con il coltello. Per una frazione di secondo i loro sguardi si incrociano, e capisce, in quell’istante, che quel­l’uomo sta per sgozzarlo.

Quando lo yemenita gli afferra il colletto della camicia e lo strappa, pensa per un istante ad altre mani. Alle carezze. Ai giochi della sua infanzia. Nadour, l’amico egiziano di Stanford, con cui giocava a fare a botte tra una lezione e l’altra: cosa ne è stato di lui? Pensa a Mariane, l’ultima sera, così desiderabile, così bella: cosa vogliono in fondo le donne? La passione? L’eternità? Era così orgogliosa, Ma­riane, del suo scoop con Gilani! Ne sentiva tanto la man­canza! Era stato davvero imprudente? Avrebbe dovuto dif­fidare di più di questo Ornar? Ma come avrebbe potuto

Un istante di vertigine.

Il sudore che si raffredda.

Il pomo d’Adamo che lotta nel collo fragile.

Viene colto da un terribile singhiozzo, e vomita.

«Rimettetelo in piedi!» intima lo yemenita assassino. L’al­tro, alle sue spalle, lo prende sotto le ascelle, come un pacco, e lo raddrizza.

«Tenetelo meglio!» insiste, mentre si discosta leggermente, con l’aria dell’artista che indietreggia per osservare meglio il suo quadro. Tocca, allora, a Karim sollevargli la testa …

Perché è arrivato il momento. Il coltello è entrato nella carne.

Piano, molto piano, ha iniziato sotto l’orecchio, molto arretrato verso la nuca. Alcuni mi hanno detto che era quasi un rituale. Altri che è il metodo tradizionale per tranciare immediatamente le corde vocali e impedire alla vittima di gridare. Ma Pearl ha reagito. Ha cercato furiosa­mente l’aria attraverso la laringe squartata. E il movimento che ha fatto è stato così violento, la forza che gli è tornata così grande, che sfugge alla presa di Karim, urla come una bestia e crolla rantolante tra il sangue che gli cola a fiotti. Si mette a urlare anche lo yemenita con la videocamera. A metà dell’opera, il carnefice, con le mani e le braccia coperte di sangue, lo guarda e si ferma. La videocamera non ha fun­zionato. Per le riprese, bisogna fermare tutto e ricominciare.

Trascorrono venti secondi, forse trenta, il tempo che basta perché lo yemenita riavvii l’apparecchiatura e rifaccia l’inquadratura. Pearl adesso è disteso bocconi. La testa, mezza recisa, è spostata dal tronco, all’indietro, lontana dalle spalle. Le dita delle mani sono infilate come artigli nel terreno. Non si muove più. Geme. Singhiozza. Respira an­cora, ma a scossoni, emettendo un rantolo rotto da gorgo­glii e gemiti come quelli di un cucciolo.

Karim infila, al­lora, le dita nella ferita per schiuderne le labbra e preparare il terreno al ritorno del coltello. Il secondo yemenita inclina una delle lampade per vedere meglio, estrae il proprio col­tello e taglia febbrile la camicia, poi la strappa, quasi ine­briato dalla vista, dall’odore, dal gusto del sangue caldo che sfugge dalla carotide come da una tubatura forata e gli schizza sul viso. A quel punto l’assassino porta a termine il suo duro compito: il coltello accanto alla prima ferita; le vertebre cervicali scricchiolano; un nuovo spruzzo di san­gue gli arriva negli occhi e lo acceca; la testa, rotolando avanti e indietro quasi godesse ancora di vita propria, fini­sce per staccarsi, e Karim la impugna come un trofeo da­vanti alla videocamera.

Il viso di Danny sgualcito come un cencio. Nell’istante in cui la testa si stacca, le labbra sembrano animate da un’ultima contrazione. E un liquido nero cola, come previ­sto, dalla bocca. Ho visto spesso persone assassinate, ma per quel che ne so, nessuna di loro riuscirà a eclissare questo viso che non ho visto e che sto solo immaginando.
Da: Bernard – Henry Lévy, Chi ha ucciso Daniel Pearl?, Rizzoli 2003, pagg. 48-56


la confessione di Khalid Sheik Mohammed, l’organizzatore dell’11 settembre
Maurizio Molinari
Dalla STAMPA del 16 marzo 2007:

Regista degli attentati dell’11 settembre, boia di Daniel Pearl, ideatore di 31 stragi e pianificatore di agguati contro Carter, Clinton, Musharraf e Giovanni Paolo II: deponendo al tribunale militare di Guantanamo Khalid Sheik Mohammed si è descritto come la mente logistica della campagna di terrore di Al Qaeda. Nato in Pakistan nel 1965, cresciuto in Kuwait e con alle spalle anche tre anni di studi in North Carolina, Khalid Sheik Mohammed è il super-terrorista titolare di 27 falsi nomi educato al fondamentalismo dai Fratelli musulmani e divenuto dall’inizio degli anni ‘90 l’autore delle più efferate operazioni di Bin Laden. Fino alla cattura da parte della Cia nel marzo del 2003 nella città pakistana di Rawalpindi.
Da allora è stato detenuto in una prigione della Cia fino alla scorsa estate, quando la Casa Bianca ne ordinò il trasferimento nella base di Guantanamo per affrontare il processo militare che si è aperto proprio con la lunga testimonianza nella quale rivendica con orgoglio di essere una sorta di demiurgo del terrore. A cominciare dagli attacchi dell’11 settembre 2001 «per i quali sono responsabile dalla A alla Z» ovvero dalla progettazione alla realizzazione da parte del commando guidato da Mohammed Atta.
La confessione più spietata riguarda l’esecuzione di Daniel Pearl, il giornalista del Wall Street Journal sequestrato e ucciso in Pakistan nel 2002: «Con la mia benedetta mano destra ho tagliato la testa dell’ebreo americano Daniel Pearl nella città di Karachi, in Pakistan, e per coloro che hanno bisogno di una conferma vi sono le foto su Internet in cui sono ritratto tenendo la sua testa nelle mani».
Sono 31 nel complesso gli atti di terrorismo dei quali Khalid Sheik Mohammed rivendica la paternità e includono le più efferate gesta di Al Qaeda: il primo attentato alle Torri Gemelle nel 1993, gli oltre 3mila morti dell’11 settembre, l’aggressione contro due soldati americani in Kuwait, l’attentato nella discoteca di Bali, gli attacchi di Mombasa contro un hotel frequentato da israeliani ed il quasi contemporaneo lancio di un missile Stinger contro un jet dell’El Al in fase di decollo dal Kenya. Rivendicare migliaia di morti è un tutt’uno con l’ammissione di essere stato il regista di piani altrettanto feroci ma falliti: dal piano «Bojinka» per far esplodere in volo 12 aerei di linea sui cieli del Pacifico ad una seconda ondata di attacchi kamikaze contro l’America che avrebbe dovuto investire le maggiori metropoli, dal progetto di affondare navi americane a Gibilterra fino all’esplosone della Sears Tower di Chicago ed al lancio di aerei-missile sauditi contro la città israeliana di Eilat.
In alcuni casi si tratta di piani noti ma vi sono anche rivelazioni inedite come il progetto per assassinare Giovanni Paolo II nelle Filippine oppure gli attentati contro Bill Clinton, Jimmy Carter e il presidente pakistano Pervez Musharraf. Anche sul fallito tentativo di far esplodere un aereo Parigi-Miami grazie ad una bomba nelle scarpe del kamikaze Richard Reid vi sono novità: il piano prevedeva l’esplosione contemporanea di due jet sull’Atlantico.
La trascrizione della confessione – resa nota dal Pentagono – è lunga 26 pagine e lascia trasparire anche la convinzione ideologica di Mohammed, che dice di «essere uguale a George Washington», definisce «inevitabile» lo spargimento di sangue fra popoli, afferma che «la guerra è iniziata quando Caino uccise Abele e ha per linguaggio il numero delle vittime» e spiega la propria militanza con la scelta di «risvegliare l’America» per «bloccare la sua politica nelle nostre terre». Esalta Bin Laden come proprio leader e gli riconosce il merito di «aver condotto la migliore conferenza stampa di sempre quando nel 1998 annunciò che dichiarava guerra all’America», e di aver creato in Al Qaeda un’organizzazione che «segue la dottrina dell’Islam e rispetta i Dieci Comandamenti».
Acquisita una deposizione destinata a far testo negli imminenti processi sull’11 settembre a 14 leader di Al Qaeda, toccherà ora agli investigatori americani appurare quanto le rivendicazioni siano vere oppure costituiscano il tentativo di ritagliarsi un ruolo di primo piano nel gotha del terrorismo islamico.


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