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Israele-Palestina: negoziati col freno a mano tirato

Creato il 13 settembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Giuseppe Dentice

Israele-Palestina: negoziati col freno a mano tirato
A distanza di vent’anni esatti dai celebri Accordi di Oslo – firmati il 13 settembre 1993 – il più antico contenzioso della storia contemporanea rischia nuovamente di naufragare e di rimanere ancora a lungo una grande speranza incompiuta. I negoziati di pace tra Israele e Palestina sono ripresi ufficialmente lo scorso 30 luglio: le trattative di pace furono interrotte nel 2010 a causa della scelta unilaterale del governo Netanyahu di non congelare il piano di insediamenti a Gerusalemme Est.

I primi incontri, interlocutori e preparatori al vero e proprio negoziato, sono avvenuti alla fine di luglio tra Stati Uniti, Israele e Territori Occupati. Il primo incontro è avvenuto a Washington, al Dipartimento di Stato USA alla presenza del Segretario John Kerry e del neo rappresentate per il Medio Oriente Martin Indyk, ex Ambasciatore in Israele durante l’era Clinton, mentre gli altri sono avvenuti tra Gerusalemme e Gerico. A rappresentare le parti sono, per i Palestinesi, il capo negoziatore Saeb Erekat e l’economista Mohamed Shtayyeh, mentre, per gli Israeliani, l’inviato speciale di Netanyahu, Isaac Molho e il Ministro della Giustizia Tzipi Livni – quest’ultima recentemente accusata dal Premier di non aver difeso abbastanza e a dovere gli interessi israeliani avendo concesso troppo ai Palestinesi. Sebbene i piani di attuazione dell’accordo siano ritenuti da tutte le parti molto ambiziosi, gli Stati Uniti ritengono possibile che attraverso questi incontri preliminari si possa stabilire un’agenda dei lavori da sviluppare entro i prossimi nove mesi per poi giungere ad un’intesa finale.

Il piano proposto da Kerry si basa ad ogni modo su una riedizione dei precedenti piani di pace in quanto si basa su un ritorno ai confini della guerra dei Sei Giorni (1967) come base per i negoziati con scambi di territori tra le parti, a cui bisogna aggiungere da un lato le richieste palestinesi di liberazione dei detenuti politici da più tempo rinchiusi nelle carceri israeliane, la rimozione dei posti di blocco e lo smantellamento delle colonie in Cisgiordania, la possibilità di siglare accordi internazionali (che però non riguardino la Difesa); dall’altro le istanze israeliane di uno Stato palestinese demilitarizzato e un riconoscimento formale dell’identità ebraica dello Stato di Israele, quest’ultima pre-condizione per qualsiasi negoziato. Punti ancora controversi rimangono quelli relativi allagestione o co-gestione di Gerusalemme e alla questione dei rifugiati palestinesi. Rimangono al momento totalmente esclusi da discussioni di vario tipo i temi riguardanti Hamas e il ruolo della Striscia di Gaza.

Se con la liberazione dei primi 26 dei 104 detenuti palestinesi prevista in quattro fasi dall’accordo preliminare (secondo il Ministro dei Prigionieri palestinesi, Issa Qaraqe, i prossimi turni avverranno il 29/10, il 29/12 e il 28/03/14) Israele sembra aver mostrato una certa flessibilità e disponibilità al dialogo, la questione sempre delicata delle colonie rischia di far saltare il banco delle trattative. Infatti, alla vigilia del secondo round di negoziati l’amministrazione municipale di Gerusalemme ha approvato la costruzione di 942 nuove unità abitative per coloni a Gilo, un insediamento già esistente nella parte sud-occidentale di Gerusalemme Est. Le ulteriori case da edificare vanno ad aggiungersi alle oltre mille già autorizzate dallo Stato ebraico pochi giorni prima: 793 a Gerusalemme Est e 394 in Cisgiordania. A queste devono aggiungersi le altre 5.000 concessioni edilizie in Cisgiordania fornite dal Governo durante la riunione del Consiglio dei Ministri dello scorso 8 settembre. Secondo uno studio condotto dal gruppo pacifista israeliano Peace Now, nei primi tre mesi del 2013 Tel Aviv avrebbe aumentato la propria presenza del 355% rispetto al stesso trimestre del 2012. Il Ministero della Difesa, inoltre, calcola che dal 1967 vivano nelle colonie 560.000 Israeliani insieme a 2,5 milioni di Palestinesi.

La decisione di Tel Aviv di non bloccare gli insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est – considerati illegali dalla maggior parte della comunità internazionale – ha provocato l’immediata ira dei Palestinesi e le critiche da parte della stessa comunità internazionale, compresa quella degli Stati Uniti che hanno visto nella scelta israeliana un tentativo di far naufragare prematuramentee volutamente i negoziati. La portavoce del Dipartimento di Stato USA, Jen Psaki, ha condannato la scelta israeliana ma ha immediatamente smentito le informazioni di stampa secondo cui sarebbero stati sospesi i negoziati. Un episodio che, secondo i media, ha causato comunque un rallentamento negli incontri informali tra le parti e che potrebbe avere ricadute sul processo di pace. E condanne sugli insediamenti piovono in particolare da Bruxelles, che nello scorso mese di luglio ha tra l’altro pubblicato le nuove linee guida della cooperazione bilaterale UE-Israele che avranno decorrenza da gennaio 2014: la decisione di bloccare i fondi a persone fisiche, enti e società pubbliche attive nei Territori Occupati – per quanto sia stata “compensata” dalla decisione di inserire l’ala militare di Hezbollah nella black list delle organizzazioni terroristiche – ha fatto tuonare Netanyahu, secondo il quale la decisione di Bruxelles rappresenta “un tentativo di tracciare forzosamente le frontiere di Israele attraverso una pressione economica, piuttosto che con il negoziato”, cosa che “rafforza la posizione palestinese e fa perdere a Israele la fiducia nella neutralità dell’Europa”. E su questo punto di non poca importanza si sta spendendo anche Kerry, che ha chiesto all’UE di posticipare l’entrata in vigore della nuova normativa.

Le trattative di pace rischiano comunque di finire nuovamente in secondo piano a causa anche del ritorno sulla scena internazionale della crisi siriana che ha in parte danneggiato proprio i colloqui israelo-palestinesi. Infatti, l’8 settembre le due delegazioni si sarebbero dovute incontrare a Roma alla presenza di Kerry, il quale ha poi dovuto annullare la sua presenza all’incontro per prender parte prima al meeting informale dei Ministri degli Esteri UE a Vilnius e poi al Vertice all’Ambasciata USA di Parigi insieme ai leader della Lega Araba per trovare i necessari consensi all’azione USA nello scenario siriano. D’altra parte un buon esito dei negoziati di pace tra Israele e Palestina potrebbe rappresentare un successo per la politica estera mediorientale dell’amministrazione democratica di Barack Obama, sempre più oggetto di critiche dopo le ultime uscite poco felici su Siria ed Egitto. Un successo che consegnerebbe comunque il Presidente democratico alla storia, malgrado sia stata la sua l’amministrazione più disinteressata alle questioni dell’area.

Ma al di là di qualsiasi intenzione di accordo, il problema per la risoluzione dell’annosa crisi rimane prettamente politico e coinvolge anche il piano interno delle rispettive parti. L’Autorità Palestinese, infatti, riversa in gravi difficoltà economiche, non gode più di legittimità popolare, non riesce più a coinvolgere la Comunità Internazionale sulla questione – a parte il sussulto dello scorso novembre alle Nazioni Unite – e ha problemi al suo interno come dimostrano le dimissioni del Premier uscente Salam Fayyad dello scorso 11 aprile; anche il nuovo Primo Ministro ad interim, Rami Hamdallah ha già rassegnato le dimissioni (20 giugno) in quanto per sua stessa ammissione ritiene impossibile governare un territorio all’interno del quale i problemi aumentano di giorno in giorno, dal crescente numero di rifugiati alla continua crisi finanziaria. Per quanto riguarda il fronte israeliano, invece, vi è l’indisponibilità di alcuni membri del Governo, come il Ministro del Commercio Naftali Bennett e il Vice Ministro della Difesa Danny Danon – espressione di correnti radicali laiche e religiose che non nascondono tutta la loro irrequietezza – a fare concessioni anche minime ai Palestinesi. D’altra parte il Premier Benjamin Netanyahu, da sempre contrario alla soluzione dei due Stati, ha però affermato che “Israele è pronto ad entrare in trattative con i Palestinesi subito, senza precondizioni e senza frapporre impedimenti alla ripresa di negoziati su un accordo definitivo” e che un eventuale accordo raggiunto sarà sottoposto ad un referendum popolare.

Secondo un sondaggio del quotidiano Israel HaYom, svolto poche settimane prima dell’inizio della ripresa dei colloqui di pace, la maggioranza dei cittadini israeliani (50,9%) si riteneva favorevole alla ripresa dei negoziati di pace con i Palestinesi ma, allo stesso tempo, ben il 71,6% si è definivo pessimista sull’eventualità di un accordo. Forse ancora una volta i popoli mostrano più lungimiranza e pragmatismo dei loro governanti.

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* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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