Istantanee

Creato il 03 dicembre 2011 da Unarosaverde

Vi sono capitate di sicuro  lunghissime settimane, frenetiche, spronate da scadenze, confuse, con i conti che devono tornare, con progetti e persone da spingere in avanti, perchè dietro c’è chi spinge voi. Settimane in cui, insomma, le ore passano e vi dimenticate perfino che ogni tanto ci si deve fermare per fare la pipì.

Vi è mai successo che , nella quiete del sabato mattina, mentre la pioggia scende fuori dalla finestra e annega in piccole pozze le foglie rosse degli aceri, al di là delle arrabbiature, dei nervosismi, degli attacchi d’ansia, dei crolli serali, le uniche cose che rimangono nella memoria siano quelle più strane, più buffe, più inattese? Quelle che proprio non c’entrano per niente con ciò in cui vi siete impegnati per la maggior parte del tempo?

Martedì, tardo pomeriggio. Dopo un anno abbondante in cui giochiamo ad ignorarci a vicenda, a fingere che non ci stiamo annusando, sbirciando di sottecchi in attesa di capire che parte stiamo recitando, finalmente un bambino di quattro anni, quando gli ho chiesto se potevo colorare i denti del suo castoro di rosa,  ha alzato gli occhi e mi ha risposto per la prima volta senza incoraggiamenti esterni. Mi ha spiegato con estrema pazienza che i denti di un castoro sono bianchi, senza ombra di dubbio. Come facevo a non saperlo? Aveva le difese abbassate: era il suo compleanno e poi ci sono voluti mezzo cannoncino, un bignè al cioccolato e una pasta alla crema di riso per portarlo in questo stato di grazia. Lo sto lavorando lentissimamente ai fianchi con squallidi mezzucci. Però se andiamo avanti così, entro quest’estate avrò qualcuno che mi faccia giocare.

Mercoledì, da qualche parte in mezzo ad un lavoro ripetitivo ed eterno. Alzo il telefono per una boccata d’aria, perché il tempo per percorrere duecento metri non l’ho. Ho un’idea in testa per un progetto, al quale posso dedicarmi solo nelle ore libere dal lavoro. La lascio, con la musica che la accompagna, nelle retrovie degli stati di coscienza, permettendole di riaffiorare solo nelle brevi pause. “Franco, ( si, sempre lui, ma mi deve sopportare solo per quattro settimane ancora, poi arriverà l’agognata pensione) mi serve un disegno. Anzi due. Subito. Mi fai un gigante giovane che mangia i bambini – i bambini li fai in divisa di scuola, per esempio – e uno vecchio, vecchissimo,  e assonnato che mangia le anguille?”. Mentre dall’altra parte del cavo arriva la risata che mi aspettavo, alzo gli occhi e uno dei ragazzi dell’ufficio mi guarda perplesso. “Tu lo sai che hai dei seri problemi, vero?”. Non è la prima volta che me lo dice. Si è dimenticato di quanto ha riso quando l’ho iniziato ai misteri del moto perpetuo creato dalla combinazione di sfiga, gatto e fetta di pane imburrata. Chissà cosa risponde quando gli chiedono come sia il suo capo.”E’ una donna, sai. Già lì cominciamo male, non ti dico. Brava? Non so, a volte sembra. Poi fa e dice delle cose stranissime. Secondo me è un’assunzione obbligatoria”

Giovedì, pausa pranzo. Piscina, cinquanta minuti di tecnica, braccia stile, gambe in pull buoy, attacco sferrato a mesi di immobilità. Ci siamo coalizzati in due a scappare dall’ufficio: l’unione fa la forza; l’obiettivo è far diventare questa fuga un’abitudine, uno stacco. Entro nella confortevole bolla calda di cloro e umidità e comincio. Come mi succedeva quando ho percorso il Cammino, mentre il mio corpo è impegnato nella fatica di gesti ripetitivi, i miei pensieri escono disordinati, percorrono strade ridicole, si intrecciano, rilasciano nel passaggio tensioni e paure ed escono, alla fine, puliti e disinfettati, come me. Ho rotto il fiato, ad un certo imprecisato punto. Non mi succedeva da aprile. Sono tornate le endorfine: credevo mi avessero abbandonato per sempre.

Giovedi, corso di inglese serale. Rimiro deliziata le due insegnanti di madrelingua che si parlano tra porta e cattedra. Devono ripetersi la frase quattro volte perchè non riescono a capirsi. Mi rincuoro: se non ce la fanno loro, che padroneggiano lo stesso idioma, allora è accettabile che io, straniera, mi perda dei pezzi per strada. Ci sono un paio di persone nuove: una è una ragazza russa, che fa l’attrice. Osservo affascinata e invidiosa per due ore il modo in cui sta dentro il suo corpo, i gesti tranquilli, il viso esposto, le spalle aperte e rilassate, l’assenza di schermi protettivi. Indossa una camicia senza maniche. E’ siberiana, il nostro clima è tiepido per lei. Mi infosso tremando con il collo dentro il golfino, la zip che copre il naso, la nausea da antitifica non ancora debellata, il ginocchio che reclama estensione. E’ una questione di prospettive. “Cosa sono le montagne russe?” chiede ad un certo punto. Glielo si spiega. “Da noi le chiamiamo montagne americane”. Pagherei anche il doppio, per questo corso stralunato.


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