"Italia e Italiani, un dialogo interrotto" di IVANO NANNI
Creato il 23 marzo 2011 da Caffeletterariolugo
L'Italia è un paese fragile cui il destino ha corrisposto una peculiarità che richiede adattamento, calma, e studio della mitologia. In tempi antichi gli Dei stabilirono che in una piccola penisola al centro di un piccolo mare sorgesse una città il cui compito sarebbe stato quello di gettare le fondamenta di civiltà future. Nel corso dei secoli questa città mantenne le promesse e coronò di gloria immensa il sogno di divinità benevole. Un grande destino per l'Italia che si trovò al centro del mondo con giusti guadagni e responsabilità immense. Ma la fortuna non finì qui, anzi proseguì su una linea ancora più fulgida. Le Muse che sono divinità che presiedono alle arti e ne trasmettono i segreti solo ai meritevoli fecero dell'Italia la più grande nicchia artistica del mondo. Fecero nascere, in questo bel paese, tanti artisti come non se ne sono mai visti in nessun altro posto e la produzione delle opere fu di tale imponenza che ancora adesso non sappiamo quante opere d'arte abbiamo nei nostri musei; e in cambio, le Muse, non pretendevano molto, solo riconoscenza e cura per tanta munificenza. Abbiamo una lunga frequentazione con la bellezza ma ne sembriamo imbarazzati, e ci siamo organizzati benissimo per ingannarci, abbiamo perso la calma necessaria per essere i custodi della nostra ricchezza, ci siamo adattati sempre di più al peggio, ci siamo seduti sulla nostra pigrizia, siamo stati e siamo immemori e superficiali, e cosa imperdonabile, abbiamo tradito le Muse, l'Italia sta diventando sempre più povera, la disgrazia incombe, gli dei ci hanno voltato le spalle ...
Ennius Flaianus, poeta, epigrammista latino del XX secolo, e psicologo finissimo del popolo italiano ci regala questo commento:
<<...ora sarebbe interessante scrivere del periodo che va dalla proclamazione di quest'unità ai nostri giorni; e studiarlo come un'occupazione dell'Italia non più da parte dei Goti, dei Galli, dei Longobardi, dei Normanni, degli Svevi, dei Francesi, degli Spagnoli, e degli Austriaci, eccetera; ma soltanto da parte degli Italiani. Considerare dunque gli Italiani come un popolo che ha occupato la Penisola e la sta semplicemente dominando. Su questi italiani ( che gli indigeni, ormai finiti nelle loro riserve, considerano accettabili e persino simpatici se presi uno per uno, ma detestabili se considerati anche in modeste quantità politiche ),i giudizi sono severi: l'unione li ha resi ignoranti e avidi, portati al disprezzo dei loro monumenti, tendenti alla burocrazia più sfrenata e alla confusa interpretazione delle leggi, attaccati al loro più abbietto “ particulare “, vivaci nell'odio del prossimo e per di più eternamente irresponsabili. Sicché l'eventuale Principe non dovrebbe rompersi la testa per governarli, ma soltanto trasformare le loro tendenze in una energia che li tenga divisi nell'unione, paradosso che non sarebbe accettabile se già non sapessimo che gli italiani amano soltanto i paradossi e fondano, per dirne una, tutta la loro politica interna sulle “ divergenze parallele “ lasciando che la politica estera sia basata sulle “ parallele convergenti “. Una volta il colpo è riuscito: nel Principe ( o duce ), che riassumeva ed esemplava tutti i loro difetti, ed emergeva nella improvvisazione e nella stupidità, due doti nazionali, gli Italiani si riconobbero e applaudirono. Non se ne sarebbero mai liberati senza una guerra che percorse come un rastrello l'Italia da capo a piedi. ( Guerra, si badi bene, non voluta dagli Italiani, ma soltanto dal loro incauto Principe ). Poi le cose cambiarono e ora c'è un intoppo: la dominazione italiana continua, ma confusa. Le tribù originarie si sono inestricabilmente mischiate. Ab ovo, queste tribù, o sette, o clan, si distinguevano per un preciso carattere negativo ed erano di grande utilità al Principe per le sue mene. Diciamo, per esempio, che una tribù era interamente composta di ladri, una seconda di costruttori, una terza di distruttori, una quarta di legulei, e via dicendo: protestatari, spie, preti, ricchi sfondati, strozzini, mafiosi, camorristi, storici e filosofi del regime: e non dimentichiamoci i ditirambici. Ora queste tribù, sette, clan, si dominano da loro stesse, in una continua contraddizione che annulla ogni possibile autorità e anche la più modesta armonia. Da questa insulsa dominazione sono venuti agli indigeni tutti i mali che li affliggono: la devastazione “ costruttiva del paese “, la corsa sfrenata verso quelli che essi ritengono i piaceri della vita: sterminio della natura, furto di beni dello Stato, costruzione intensiva di orribili abitazioni che essi chiamano ville, frantumazione di idee, libertà intesa come prigionia del proprio vicino, amore forsennato per lo sport fatto dagli altri, frodi alimentari, disboscamento, suoni e luci, rumori molesti, distruzione di parchi per far fronte alle automobili; che sono i soli feticci tenuti da conto. La dominazione italiana in Italia ha naturalmente portato anche dei benifici: l'abolizione dei confini tra stati e staterelli, la costruzione di una imponente rete stradale, l'aumento del reddito, l'aumento del contrabbando, la distruzione della scuola e la persecuzione dei cristiani >>. ( da La Solitudine del Satiro, “ Corriere della Sera “, 25-10-1970 ).
Nello stesso periodo Mario Soldati compie tre viaggi, 1968-70-75, con l'intento di scoprire l'eccellenza vinicola tutta italiana, e con una prosa robusta, come la definisce Croce, riesce a comunicare l'eccezionalità di questa terra e dei suoi abitanti, che così descrive in un inciso dell'introduzione di Domenico Scarpa:
<< se volete trovarvi bene in Italia - spiego ad amici stranieri - dovete scoprirla per conto vostro, affidandovi alla fortuna e al vostro istinto, perché una grande legge dell'Italia è proprio questa: che, da noi, tutto ciò che ha un titolo, un nome, una pubblicità, vale in ogni caso molto meno di tutto ciò che è ignoto, nascosto, individuale.[...] Lo so che in Inghilterra alcuni ottimi whisky sono proprio quelli delle marche più note. E così in Francia certi Bordeaux e Bourgogne, ma in Francia e in Inghilterra da secoli e non soltanto per i vini e i liquori, esiste un ponte tra società e individuo, una civiltà organizzata, una gerarchia del costume. La nostra civiltà non è inferiore, ma diversa. È una civiltà anarchica, scontrosa, ribelle. Da noi, l'uomo di valore, come il vino prelibato, schiva ogni pubblicità: vuole essere scoperto e conosciuto in solitudine, o nella religiosa compagnia di pochi amici >>.
Leggendo questo straordinario libro di viaggio, romanzo enologico, saggio antropologico, bibbia laica del buon bevitore e buongustaio, ci appaiono due cose in tutta la loro fulgida concretezza: la prima è l'ottimismo critico e inesauribilmente curioso di Soldati, la sua risata franca, e la genialità con cui entra immediatamente in contatto gli individui, che lo porta a bussare a tutte le porte per incontrare il vino e la gente che lo produce creando una linea ideale che unisce ed eleva un popolo all'insegna di un'eccellenza, e la seconda è che siamo in un certo senso( diverso da tutti gli altri) migliori di quello che riteniamo, solo se presi individualmente, e in “ Vino al Vino “, lo scrittore Soldati, lo dimostra in maniera abbagliante, con semplicità, genuinità e con umile senso pedagogico.
In questo paese dove il paradosso è una costante, si nota che :
il 17 marzo 1861 fu proclamata l'Unità d'Italia, e sempre in quella data 17 marzo ma dell'anno 1981, a Castiglion Fibocchi presso Villa Wanda, dimora di un venerabile uomo di loggia, si rinvenne una lista con i nomi di 962 signori titolati di tutto punto, i quali avevano uno scopo comune, come dimostrò una Commissione parlamentare presieduta da una chiarissima Tina Anselmi, quello di distruggere le istituzioni democratiche che avevano preso avvio da quell'unità d'Italia, in quel giorno solenne. Coincidenze, paradossi. Ma bando alle piccole afflizioni, rincuoriamoci con una poesia del nostro epigrammista sommo, da "La valigia delle Indie “ :
17 marzo.
Ho buona memoria, un bieco talento
un talento che ingabbia la memoria,
quel che ricordo è senza asprezza:
quadri di un'impassibile dolcezza,
volti che non chiedono più un nome
e la fretta di continuare, l'ebrezza.
Si resta sempre inferiori all'età,
sempre delusi di ricomnciare.
La mia pigrizia è solo calda attesa
la mia attesa solo vuoto che pesa,
un uomo si dibatte dentro di mecerca un varco che sarà la resa.
di Ivano Nanni
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