Italia e Libia: due approcci differenti per la presenza cinese nel Mediterraneo

Creato il 20 settembre 2011 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Antonio Scarazzini

Da un lato l’improvviso e vigoroso risveglio dei popoli del Nord Africa, dall’altro una crisi finanziaria e strutturale che proprio dai Paesi del Sud Europa rischia di trasmettersi alle grandi locomotive economiche del Nord. Circondata da due focolai di crisi dai volti così differenti, la “Go Out Policy” di Pechino si trova di fronte a due potenziali fattori di instabilità per la quota di investimenti operati in Libia ed Italia, due Paesi che esemplificano al meglio le nuove sfide che la Cina deve affrontare per proseguire la sua penetrazione economica nel Mediterraneo.

Astensioni e titubanze: la crisi libica vista da Pechino

Con l’astensione dal voto di approvazione della Risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU (17 marzo2011) la Cina ha mostrato ancora una volta freddezza nei riguardi di qualsiasi intervento che vada a minare l’integrità territoriale e la sovranità di uno Stato: la missione “Odissey Dawn” non ha fatto altro, secondo l’amministrazione cinese, che ravvivare il pericolo di un’ingerenza dei Paesi occidentali, offrendo a Pechino la possibilità di presentarsi ancora una volta ai partner africani come esempio di una collaborazione economica che non aspira ad intaccare la sfera sovrana di ciascuno Stato.

Andando oltre le dichiarazioni ufficiali, è tuttavia facile riscontrare una certa ambiguità nell’atteggiamento cinese verso la crisi libica: Pechino sembra divisa fra la necessità di tutelare i propri interessi ed investimenti e la volontà di partecipare alle iniziative della Comunità Internazionale per la ricostruzione del post Gheddafi. Di fronte all’escalation di violenza ed all’aumento delle intensità dei bombardamenti NATO, il governo di Wen Jiabao si è prontamente attivato per evacuare i 36.000 cittadini cinesi impiegati nelle 75 compagnie cinesi attive in territorio libico, autorizzando il dispiegamento nelle acque del Mediterraneo di una flotta – capeggiata dalla fregata Xuzhou e già impegnata nel Golfo di Aden – per fornire appoggio ai propri connazionali, regalando così un’immagine di velato risentimento neiconfronti dell’intervento militare fortemente sponsorizzato da Francia e Gran Bretagna. Il riconoscimento ufficiale del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) è infine arrivato solo lo scorso 12 settembre dopo che Wen Zhongliang, Vice Ministro al Commercio, e Ma Chaoxu, Ministro degli Esteri, avevano invitato le autorità dei ribelli e l’ONU a cooperare per una transizione democratica e a proteggere gli investimenti stranieri attivi in Libia. Ad incidere sull’atteggiamento di Pechino aveva inoltre contribuito l’annunciofornito per voce di un  funzionario dalla AGOCO, compagnia petrolifera libica, di una possibile interruzione dei rapporti contrattuali in vigore con Cina, Russia e Brasile, i tre Paesi che insieme a India e Germania si erano astenuti dal voto in seno al Consiglio di Sicurezza. Il traballante rapporto fra la Cina ed il CNT guidato da Mahmoud Jibril ha visto così inserirsi un ulteriore elemento di incertezza, dopo che fonti ribelli riportate dal New York Times avevano rinvenuto documenti che attestavano la vendita al regime di Gheddafi da parte di aziende cinesi di un vasto arsenale di armi per un valore di circa 200 milioni di dollari, inviolazione dell’embargo istituito con la Risoluzione 1970 approvata lo scorso 26 febbraio.

Nella corsa alla conclusione di nuovi accordi commerciali con il nuovo governo libico la Cina non ha mostrato la stessa intraprendenza di Nicolas Sarkozy o David Cameron – i primi leader europei a visitare Tripoli dopola caduta del regime –, ma ha subordinato, al contrario, la piena ripresa della collaborazione economica con il Paese africano al raggiungimento di sufficienti requisiti di sicurezza per i propri operatori. Ma qual è, dunque, l’entità degli investimenti cinesi in Libia?

Malgrado il portavoce del Ministro del Commercio Shen Danyang avesse tenuto a sottolineare come in Libia non fosse attivo alcun investimento diretto, dalle parole di Zhong Manying, direttore del dipartimento Africa-Asia Occidentale dello stesso Ministero, erano emersi i dati di contratti riguardanti 26 imprese cinesi per un valore di oltre 20 miliardi di dollari. Il settore petrolifero, che pure ha catalizzato gli interessi degli analisti per il ruolo che giocherà nel post Gheddafi, non rappresenta tuttavia per Pechino il principale obiettivo di investimento. La presenza delle tre compagnie stataliChina National Petroleum Corporation (CNPC)Sinopec e China Nation Offshore Oil Corporation (CNOOC), a differenza di quanto avviene ad esempio per l’italiana ENI o per la statunitense ConocoPhillips, si limita alla progettazione di infrastrutture: l’unico tentativo di acquisizione diretta in attività di estrazione risale al 2009, quando il regime di Gheddafi rispose negativamente all’offerta di 462 milioni di dollari per l’acquisto di Vevenex Energy da parte di CNPC. Tramite Unipec, la branca commerciale di Sinopec, il colosso asiatico ha stretto quindi contratti per l’importazione di circa 150.000 barili al giorno, pari al 10% delle esportazioni di greggio libico e sufficiente a coprire il 3% del fabbisogno cinese. Un impegno molto limitato se confrontato, ad esempio, con quello in Angola (secondo fornitore di greggio dopo l’Arabia Saudita che copre il 15% delle importazioni, circa 500.000 barili al giorno, grazie alla partnership tra Sinopec e Sonangol[1]) o in Iran (14% delle importazioni cinesi, con Sinopec che nel 2010 ha investito oltre 6,5 miliardi di dollari in raffinerie).

L’attenzione delle imprese cinesi in Libia si concentra dunque su contratti di progettazione e costruzione di grandi infrastrutture ed è verosimile che la ricostruzione del paese offrirà ulteriori possibilità di incremento dei capitali investiti in questo settore, che nel 2008 aveva fatto registrare l’attivazione di progetti per un valore complessivo di oltre 10 miliardi di dollari: a farla da padrone sono le attività[2] della China Railways Construction Corp. (CRCC) e della China StateEngineering Corp. (CSCEC), cui si aggiunge la ZTE Corp che nel settore delle telecomunicazioni ha investito dal 1999 oltre 457 milioni didollari. Significativo è l’impegno della CSCEC, che dal 2007 ha attivato oltre 20mila progetti di costruzione di aree residenziali per un valore di oltre 2,7 miliardi di dollari, coinvolgendo nei lavori tra le 600.000 e le 800.000 persone secondo un rapporto dell’Economist Intelligence Unit del 2008. Quanto alla CRCC, erano invece 3573 i membri dello staff impiegati nei tre grandi progetti attivi dal 2008 stimati per un valore di circa 4 miliardi di dollari, così ripartiti:

a)  2,6 mld$ per due progetti ferroviari: uno di 352 km che colleghi Khums e Sirte (città costiere coinvolte nella rete ferroviaria Panafricana) ed uno di oltre 800 km che colleghi Sud e Nord del Paese con una linea che, da Sebha a Misurata, possa facilitare soprattutto il trasporto di materiale di estrazione mineraria[3];b)  805 milioni per la sezione occidentale (da Tripoli a Ras Ajdir, al confine tunisino) della linea costiera, che dovrebbe congiungere i confini di Tunisia ed Egitto[4];

L’interesse per investimenti in progetti ingegneristici ed infrastrutturali diventa quindi la nota caratterizzante dell’impegno cinese nell’area del Mediterraneo, tanto sulla sponda africana quanto su quella europea: è molto recente infatti l’annuncio di significative collaborazioni tra capitali cinesi ed italiani nella riqualificazione di grandi opere, in particolare nelle regioni del Sud.

Titoli di Stato e grandi opere in Italia: la “campagna acquisti” dei fondi cinesi

Secondo i dati forniti dal Sole 24 Ore, gli investimenti dei fondi cinesi in Italia (titoli di stato, depositi easset) ammontano a 74 miliardi di euro: sulla scia dell’intervento della BCE, intenta ad acquistare i titoli di Spagna e Italia per allentare la pressione sui Paesi più indebitati, ci si aspettava che l’incontro fra i vertici della China Investment Corporation (CIC) e i rappresentati del governo italiano vertesse sull’acquisto di titoli di stato da parte del fondo sovrano cinese, capace di attingere anche alle ingente riserve di valuta estera della Banca Centrale, valutate attorno ai 3200 miliardi di dollari. Una quota del 4% del debito pubblico italiano (circa 7 miliardi di euro su 1900 complessivi) risulta già detenuta da investitori istituzionali cinesi[5], ma dal summit con i vertici della Cassa Depositi e Prestiti diretta da Franco Bassanini sembra probabile l’apporto di capitali asiatici nei due fondi di private equity, il Fondo Strategico Italiano e il Fondo Italiano di Investimento, per partecipare al finanziamento ed al rilancio delle piccole e medie imprese italiane.

L’entourage guidato da Lu Jiwei, il Presidente del fondo, ha quindi subito chiarito che gli investimenti in Italia non potranno limitarsi all’ambito finanziario ed, anzi, per garantire sicurezza ai capitali investiti, l’impegno in infrastrutture sarà un ambito prioritario.

L’intervento cinese in Sicilia è stato incentivato da un memorandum[6] stilato fra la Regione e laChina Development Bank (CDB) per il finanziamento di otto grandi opere infrastrutturali, la principale delle quali riguarda i porti di Pozzallo e Augusta (per un valore di 90 milioni di euro) è che oggetto di interesse del gruppo Hna, attivo nei trasporti e nella logistica. L’ampliamento delle banchine e del pescaggio dei bacini del ragusano dovrebbe fare della Sicilia un polo strategico per i traffici nel Mediterraneo, proseguendo sulla falsariga dei progetti in atto per il Pireo di Atene. Nell’ambito del medesimo memorandum s’inserisce poi un accordo tra la CDB e la Rizzo-Bottiglieri-Carlini Armatori S.p.A., che prevede un impegno della prima nella costruzione di due nuove unità navali oltre alle 12 già varate in Cina dal gruppo italiano (come annunciato dall’armatore Rizzo sul Sole 24 Ore dello scorso 7 giugno). Sempre con i vertici della CDB, l’amministrazione regionale ha infine prospettato interessanti opportunità di investimento nel settore delle energie rinnovabili, in particolare nell’eolico e nel fotovoltaico. A queste bisogna aggiungere, infine, l’interesse nei confronti della partecipazione al finanziamento dei lavori per il ponte sullo stretto messinese, difeso dal Ministro Matteoli per completare il corridoio ferroviario Berlino–Palermo.

La “Go Out Policy” del Partito Comunista Cinese assume, quindi, i caratteri di un’influenza sempre più penetrante e pragmatica di fronte alle opportunità economiche offerte da ciascun Paese: le attività dei fondi di investimento (come la CIC e Fosun) avviate in queste aree assumono sempre più nitidamente le forme di strumenti di soft power anche al di fuori dell’area asiatica, laddove gli interessi europei e statunitensi avevano sinora tenuto il ruolo di primattori.

* Antonio Scarazzini è Dottore in Studi Internazionali (Università di Torino)
[1]   http://mondocina.it/index.php/laowai/analisi/819-impero-cinese-dafrica-14.html[2]   http://www.chinaafricarealstory.com/2011/03/china-and-libya-whats-real-story.html[3]   http://www.crcc.cn/Page/532/SourceId/1704/InfoID/4099/default.aspx[4]   http://sekkah.com/Details.aspx?Page_ID=197[5]   http://www.ft.com/intl/cms/s/0/90c4c7f6-dd54-11e0-9dac-00144feabdc0.html#axzz1YJRNhLEG[6]   http://www.agichina24.it/repository/canali/norme-e-tributi/notizie/201109140200-rt2-ss20110914013aaa-la_cina_punta_alle_infrastrutture

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