La sintesi che va per la maggiore è quella del regalo Azzurro agli inglesi. Dissentiamo, con tutto il rispetto, anche se l'amarezza è grande: la vittoria era nettamente alla portata dei nostri, stavolta esenti da errori marchiani in fase difensiva (solo uno) e autori di due mete contro una - leggi: doppia, reiterata capacità di sfruttare errori avversari.
Non è bastato: il motivo della sconfitta è lo stesso di Parigi, la vittoria se la sono guadagnata gli avversari col loro cinismo, figlio di esperienza e quindi maggior sangue freddo. Anche se il conto dei caps era nettamente a nostro favore, le dinamiche nei giochi di squadra, a maggior ragione nel rugby, sfuggono spesso alle analisi uno-contro-uno: una squadra, una nazionale sono quasi un organismo a sé stante, sviluppano proprie logiche e sedimenti di conoscenza.
Prevalenza dunque della sagacia avversaria, soprattutto nelle fasi finali, agevolata dai limiti nella "coperta" italiana: se la tiri a disperdere energie nel gioco espansivo, nel secondo tempo fatalmente i nostri si trovano scoperti, in debito d'ossigeno e di lucidità. Se i francesi seppero accelerare ad ogni errore commesso dagli Azzurri, stavolta la capacità inglese di contenere gli italiani (non alla perfezione: ribadiamo, la vittoria stavolta era davvero alla nostra portata), unita all'aumento del ritmo nelle fasi finali, ha asfissiato la lucidità di molti Azzurri ed è il motivo per cui in dispensa a fine partita non abbiamo più trovato quanto raccolto nel primo tempo. I parziali: 12-6 nel primo tempo, 3-13 nel secondo, la dicono lunga.
Per quanto riguarda l'Inghilterra, nulla di nuovo rispetto a quanto analizzato la scorsa settimana: i giovinastri radunati da Stuart Lancaster han confermato le attitudini mostrate al Murrayfield, cioè quanto abbiamo battezzato in modo non originale "defense driven pragmatism".
Un approccio consono alle caratteristiche "mastine" ed esperienziali inglesi, perso nella gestione Martin Johnson a causa del troppo spazio concesso agli individualismi, ripreso dal "caretaker", che l'ha reso maledettamente efficace con pochi accorgimenti. Il sergente maggiore ha innanzitutto scartato i giocatori inadatti e ha "fissato" i prescelti, legandoli a precise "zolle" (gleba in latino, da cui "servi della gleba") con compiti precisi per ruolo, rinforzando il tutto con un rinnovato understatement (vedi raduno preparatorio a Leeds e non in Portogallo) anche a livello individuale, come mostra l'atteggiamento remissivo di un super testa calda come Dylan Harley: in campo non reagisce più manco alle mani in faccia!
L'esito è un gioco non molto esaltante: il nostro ospite inglese Total Flanker ha scritto papale papale che non giocano a rugby, il Socio ha sottolineato l'assenza dal novero dei giocatori propositivi e non solo reattivi in campo di Chris Ashton, accompagnato stavolta anche da David Strettle. Ai due è andata di lusso: il terzo membro del triangolo allargato, Ben Foden, s'è messo in luce per motivi decisamente pessimi: errori decisivi, due mete sul groppone. Ma non deve essere molto divertente là dietro rispettare le rigide consegne del coach.
Anche il resto del reparto arretrato non brilla: sono apparsi "vivi" e sufficienti solo il freddo e preciso Owen Farrell, migliore in campo se il titolo dovesse per forza andare a un membro della squadra vincitrice e Charlie Hodgson, in ragione del suo guizzo-bis in meta, a prendersi lo scalpo di Masi dopo quello di Parks la settimana prima - traumatizzato al punto da dichiarare il suo ritiro (Masi mi raccomando, non t'attapirare troppo).
Il guizzo in questione merita di venir sottolineato: ma quale "fortuna" caro Kirwan, certi bis non avvengono per caso, difatti l'apertura dei Saracens s'allena regolarmente sul fondamentale. Lezione: l'esperienza, o "il cinismo", significa prima di tutto cura dei dettagli. Son quelli che fanno la differenza tra una vittoria di misura, "ugly", e una sconfitta di misura ("onorevole" solo per noi latini: tra gli anglosassoni manco esiste il concetto - onorevole è partecipare, sempre, but a loser is a loser).
Il modello di gioco inglese si evidenzia bene all'inizio partita: avanti a macinare campo in modo molto fisico, con la priorità di provocare falli da capitalizzare, prima che cercar buchi difensivi come farebbe un Galles, o allargare il gioco come farebbe l'Irlanda. C'è da dire che nell'ultimo quarto questo schema diviene ossessivo con l'ingresso di Lee Dickson in mediana che velocizza il ritmo e di Ben Morgan The Missile, abile sfondatore di ruolo. Grande tattica, molto efficace con l'Italia: contienila, cerca il fallo, conserva la calma e prova a colpirla con continuità nel secondo tempo.
In fase difensiva, massima è l'attenzione e la compattezza inglese. Contro gli scozzesi son riusciti a ricucire in scrambling tutte le falle, con l'Italia le coperture son saltate un paio di volte, sempre per causa dell'ultimo uomo Foden e tutto nel giro di qualche minuto, a fine del primo tempo. Errore individuale, rimediato by keeping cool and holding on; i nostri invece, caratterialmente ancor prima che per via del debito d'ossigeno, si sono scomposti e quasi arresi mentalmente per lunghi minuuti, una volta subito l'uppercut d'incontro.
La vera area di miglioramento del gioco inglese sono le fasi statiche: il mestiere e la capacità di gestire l'arbitro han messo una pezza alla evidente inferiorità in mischia ordinata - ne han perso una sola su loro introduzione e han preso una punizione, mentre i nostri han dovuto subire 4 reset su 5 introduzioni.
Piuttosto, s'è confermata la problematicità in rimessa: Palmer, Croft e Botha han subito tutta una serie di rubate senza mai riuscire a impensierire gli italiani.
Un ulteriore aspetto critico del modello: vedremo se in casa, sotto gli occhi dei suoi e della critica domestica, Stuart Lancaster potrà permettersi un gioco così chiuso e lento. Nel prossimo turno riceveranno il Galles, il peggior cliente possibile oggi per chi tenti di improvvisarsi "espansivo" senza averne i cromosomi.
Veniamo ora agli Azzurri. Hanno applicato lo stesso modello di gioco visto con la Francia (lo definirei aggressivo più che espansivo tout court); s'è notato qualche progresso nell'affiatamento e nella confidenza. I limiti sono rimasti gli stessi: non tanto stavolta l'incapacità di superare la linea difensiva, quanto ancora una volta, l'ossigeno limitato a 50-60 minuti di gara.
Sul piano della capacità di portare a galla falle avversarie, stavolta la caparbietà di Benvenuti - due tentativi di calcetto a seguire per Venditti nella stessa azione d'attacco - e un momento di sbandamento di Foden, han consentito all'ala Aironi di esplorare e capitalizzare l'errore avversario. A questi livelli si marca più sovente sugli errori che non sulle capacità di superare linee molto presidiate. Di più, la pressione difensiva - sottolineo, difensiva - attuata a Zanni e ancora Benvenuti, ha provocato il secondo errore degli avversari, irrimediabile in quanto commesso dall'estremo (l'ultimo uomo direbbero quelli che il calcio).
Purtroppo però la coperta è quella che è: è riemerso il difetto pre-Mallett, l'autonomia limitata. Stavolta aggravato dal salto del cambio in prima linea probabilmente previsto per LoCicero, che ha dovuto spararsi tutta la gara. Il punto della incapacità di reggere la distanza è stato l'elemento (negativo) che da solo spiega la sconfitta. Tutto il resto è dettaglio, accidente: le lacune che elencheremo di seguito non sono state sfruttate appieno da un avversario francamente non trascendentale e, mannaggia, del tutto battibile. Esattamente come due anni fa, sempre a Roma, solo che allora manco ci provammo; mentre negli anni dispari a Twickenham, gli inglesi si sfogano e ce le fan pagare tutte.
L'altro aspetto problematico Azzurro è ancora una volta la qualità del gioco tattico. Burton e Gori han pregi e difetti opposti: se il primo è bravo a identificare lo spot di campo e il momento giusto ma a volte esegue male (due i calci di punizione diretti in rimessa laterale intercettati dagli inglesi, un calcio di spostamento uscito dal fondo), il mediano invece ha il tempismo e la misura di una moglie incavolata.
Purtroppo stavolta i loro rimpiazzi sono stati ancora più deludenti, in specie Semenzato, resosi protagonista di uno scadimento della qualità del gioco di possesso, mentre Botes ha cannato molto malamente i due calci di punizione a disposizione, sei punti non impossibili e potenzialmente decisivi. Il quarto d'ora a freddo e storto càpita a tutti.
Nelle fasi statiche, luci ed ombre: molto buona la rimessa laterale, così efficace e "di reparto" da essere indifferente all'assenza del comandante Van Zyl, sostituito in modo perfetto dall'antico Bortolami. Complimenti, per tutta la gestione Mallett avevano traballato non poco nel fondamentale.
E' crisi invece in mischia ordinata: per usare una parafrasi motoristica, non si riesce a scaricare a terra tutta la potenza di cui disponiamo. E' un problema innanzitutto disciplinare e di "credibilità": nonostante l'esperienza, non abbiamo ancora imparato a gestire gli arbitri. Essendo la seconda partita in fila in cui capita e anche di più se ricordiamo i Mondiali, urge riflessione al proposito.
Molto buono invece il miglioramento nei movimenti collettivi in fase dinamica, sia di non possesso (difesa) che di possesso palla (attacco) e anche nella conquista del possesso (ribaltamento di fronte). Il sostegno che i nostri attuano è pressocchè perfetto, regge il confronto con la terza linea gallese, così come in fase di percussione poco abbiamo da invidiare a quella irlandese.
E' bello vedere il problema risultato letale la settimana prima (errori difensivi) del tutto risolto, è bello sentir Brunel dire sicuro prima della partita "Stavolta non vedremo errori di placcaggio" e verificare che è andata così. Purtroppo è rimasto insoluto il grave problema della endurance alla distanza. Stavolta aggravato e non mitigato dai cambi (mi riferisco alla mediana).
Per concudere con una nota positiva: Parisse è grande, meritatissimo Man of the Match.