Italia: un paese anormale?

Creato il 02 ottobre 2012 da Tabulerase

La classe dirigente del nostro Paese ha cominciato a manifestare elementi di patologia dell’azione politica già all’indomani delle elezioni del 2 giugno del 1946 per la Costituente (in cui socialisti e comunisti insieme avevano ottenuto quasi il 40% dei voti, ossia la maggioranza relativa) e durante i successivi gabinetti De Gasperi che a partire dal terzo, varato il 31 maggio del 1947, in piena guerra fredda, pur di estromettere le sinistre dal governo del Paese avviarono rapporti mefistofelici con qualunquisti, conservatori e monarchici.

A partire dalla strage di Portella delle Ginestre (1° maggio del 1947) e dal caso Giuliano l’Italia si è caratterizzata, infatti, nelle forme di un paese dominato dalla cultura della clientela, della corruzione politica e dello scontro sociale, animata da tendenze reazionarie e complottiste e ammorbata da un obnubilante conservatorismo catto-clericale. Tali circostanze hanno forgiato una classe politica inadeguata e mediocre che, anno dopo anno, ha creato tutte le condizioni per il declino inesorabile (energicamente negato dall’ex premier italiano Silvio Berlusconi) che oggi stiamo vivendo. Mai, ad eccezione delle “pause tecniche”, un solo provvedimento generato dalla domanda sociale né una legge nell’interesse generale. Sempre, e soltanto, politiche adottate in condizioni di emergenza, provvedimenti “fotocopia” o ad personam e leggi sollecitate nel contesto di rapporti internazionali più o meno discutibili.

L’inchiesta giornalistica più matura (penso a Marco Travaglio, a Peter Gomez, a Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza), l’inchiesta giudiziaria (quella delle tre procure italiane più attive: Palermo, Caltanissetta e Firenze) e la ricostruzione storiografica (realizzata da storici come Giuseppe Carlo Marino, Angelo del Boca, Adriano Prosperi) ricompongono un sistema politico-strategico inquietante, a tinte fosche, per le dinamiche ed i meccanismi di governo attivati in oltre 60 anni di storia repubblicana, disarmante per i risvolti sociali e culturali, nonché sconfortante per la sensazione di irredimibilità del sistema complessivo. Infatti, emerge un quadro rispetto al quale il Mezzogiorno, e la Sicilia in particolare, hanno sempre rappresentato realtà funzionali ad un progetto di “normalizzazione” del Sud finalizzato alla neutralizzazione delle sue stesse energie eversive (a partire dall’EVIS guidato da Salvatore Giuliano fino ai vari movimenti indipendentisti arrivati ai giorni nostri) e all’utilizzazione delle sue risorse più conservatrici (dalla chiesa all’aristocrazia terriera legata al feudo) al fine di sfruttare in maniera strutturale tutta la sua arretratezza come fattore paradossale di stabilità nazionale guidata da forze moderate e funzionale agli interessi del Nord, ricco e industrializzato.

Nello specifico, inchiesta giornalistica, azione giudiziaria e storiografia tratteggiano il profilo di una classe politica italiana che, piuttosto che svolgere un’azione pedagogica nei confronti di un Paese immaturo, lacerato da mille contraddizioni ereditate dal passato e consolidatesi durante la guerra fredda, ha preferito la strada più semplice: sfruttare, normalizzandole, le energie e le risorse sociali disponibili di ispirazione mafiosa (da “Don Calò” Vizzini a Vito Ciancimino, fino a Salvo Lima), reazionaria (dalla Loggia P2 di Licio Gelli alla X flottiglia MAS di Junio Valerio Borghese) e conservatrice (dal Primate di Sicilia, Cardinal Ruffini, che sosteneva “la mafia non esiste se non nella perversa fantasia dei comunisti …”, a Pio XII, fino allo IOR di Paul Marcinkus).

Un’unica lunga storia fatta di tanti avvenimenti che inanellati, uno dopo l’altro, c’hanno condotto al quasi ventennio berlusconiano: gli omicidi di Enrico Mattei, Pier Paolo Pasolini e Mauro De Mauro, il caso Sindona e l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, il terrorismo rosso e nero degli anni ’60-‘80 (dalla strage di piazza Fontana al sequestro Moro, fino alla strage di Piazza Bologna), l’assassinio di Pio La Torre e del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’attentato dei Georgofili, le stragi di Capaci e via D’Amelio, l’omicidio di Don Pino Puglisi, la trattativa Stato-mafia … E siamo arrivati al Parlamento attuale, quello della XVI legislatura (senza per questo escludere i vari consigli regionali, provinciali o comunali), i cui seggi sono in buona parte occupati da reduci della Prima Repubblica, da personaggi passati in giudicato o inquisiti per diversi reati, da picchiatori fascisti e anche da qualcuno tesserato della Loggia P2.

Non ho mai pensato che il nostro Paese stesse soffrendo di un processo degenerativo, ma semplicemente che questa fosse la sua natura più autentica figlia di un “familismo amorale” e di un capitale sociale debole, estraneo alle logiche della solidarietà e della coesione sociale (situazione rilevata da studiosi come Edward Banfield, già all’indomani del secondo dopoguerra, e più recentemente da Robert D. Putnam e Francis Fukuyama) e, soprattutto, avversa alle istituzioni democratiche.

In un articolo del 2003 dal titolo Drunk on corruption, Vladimir Voinovich, ex dissidente sovietico, intellettuale e scrittore russo tra i più interessanti, riferendosi al suo Paese ha raccontato di un sistema altrettanto malato quanto quello italiano che pervade ogni aspetto della vita pubblica e che addirittura affonda le radici nella Russia del ‘700. Nell’articolo, l’intellettuale narra l’aneddoto secondo cui “il ministro Alexander Menshikov, sulla volontà espressa dallo Zar Pietro il Grande di combattere la corruzione, abbia risposto: Maestà, così rischiate di perdere tutti i vostri sudditi”. Da allora in Russia la corruzione è diventata sempre più radicata e pervasiva al punto da perseguire interessi anche nel mantenimento di guerre come quella in Cecenia. È evidente come la corruzione condizioni gravemente la qualità di vita dei cittadini speculando spesso anche sulle disgrazie di interi popoli. Basti pensare, solo per fare alcuni esempi, alla penosa vicenda del terremoto in Abruzzo del 2009, ai cantieri “miracolo” del Governo Berlusconi e alle “grasse risate” notturne tra imprenditori che si sfregavano le mani per gli affari che già intravedevano, o alle inchieste sul G8, su Anemone, su Balducci e gli appalti della Maddalena. Insomma gli esempi sono davvero tanti.

L’economista americano Jeffrey D. Sachs che insegna alla Columbia University, in un articolo del 2005, dal titolo Who Beats Corruption? con riferimento all’urugano Katrina, ricorda lo scandalo dell’americana Federal Emergency Management Agency, gestita da “inetti compari politici, piuttosto che da professionisti … la cui incompetenza fu fatale”. Rispetto alla necessità di reclutare un personale politico fatto di persone oneste e capaci di gestire interessi collettivi e servizi pubblici, le elezioni sono ovviamente una occasione fondamentale per tutte le democrazie, anche se le stesse campagne elettorali possono essere condotte facendo ricorso alla corruzione e alle clientele. E se chiare regole e procedure elettorali possono contribuire a garantire la trasparenza, la responsabilità vera risiede nella società civile e nella sua capacità di scelte di voto ispirate all’interesse collettivo.

Potrei andare ancora avanti parlando della corruzione in India che – come raccontato da Jagdish Bhagwati, professore di Law and economics alla Columbia University, in un articolo del 2010 dal titolo Getting corruption – rappresenta un fenomeno talmente diffuso da spingere gli osservatori a parlare di un “capitalismo clientelare che corrode la crescita”. L’autore dell’articolo racconta che uno degli aneddoti più diffusi è quello secondo cui “anche un cieco può dire: l’ho visto prendere una bustarella con i miei occhi”.

A confermare gli effetti esecrabili della corruzione è proprio il premio Nobel Joseph E. Stiglitz che, in un articolo del 2006, dal titolo Corrupting the fight against corruption, sottolinea le “relazioni sistematiche tra corruzione e depressione economica”, sottolineando la necessità di una lotta alla corruzione che tenga in considerazione le aree più sensibili che vanno dalla trasparenza nell’assegnazione di fondi pubblici e contributi elettorali alla regolamentazione delle attività di lobbying, dalla regolamentazione del segreto bancario alla lotta alla povertà (soprattutto dei Paesi in via di sviluppo).

Potrei andare avanti ancora parecchio, analizzando la corruzione in Cina o in Medio Oriente, ma voglio tornare al nostro Paese. In una famosa intervista di Eugenio Scalfari del 1981 – ricordata dall’economista Luigi Zingales nel suo ultimo saggio dal titolo Manifesto capitalista. Rifondare il capitalismo a favore dei cittadini – l’allora segretario del Partito comunista, Enrico Berlinguer, sollevava già la “questione morale”, nella sua battaglia contro il blocco di potere democristiano, definendo i partiti italiani “come macchine di potere e di clientela … che gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi”. L’aspetto più drammatico secondo Zingales è che ormai quella questione morale ha valicato i confini della politica invadendo “come un cancro” ogni aspetto della società civile. E così l’assenza di meritocrazia, una diffusa cultura familistica, la mancanza di fiducia nelle istituzioni, una cultura eccessivamente garantista, la cronica lentezza della giustizia italiana e la selezione da parte dei partiti di un personale politico culturalmente inadeguato hanno trasformato l’Italia, sulla falsariga di Zingales, in una “peggiocrazia”.

È vero che i cittadini possono davvero poco contro leggi elettorali fortemente stringenti che impediscono nei fatti la scelta diretta di candidati e partiti, ma è anche vero che perfino il Porcellum di berlusconiana memoria garantisce margini utili per l’esercizio del voto. Basterebbe davvero poco. Basterebbe interrogarsi sulle vicende personali e sulla storia politica dei candidati che di volta in volta si presentano alle diverse competizioni elettorali, abbandonare la pratica predatoria del voto di scambio e votare con la convinzione che il bene personale passa inevitabilmente attraverso quello collettivo. Del resto nelle società contemporanee, postmoderne, fondate sulla economia della conoscenza possono mancare molte cose, ma quello che di certo non manca è l’informazione.


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