La mattanza è un metodo di pesca siciliano, molto antico, portato dagli arabi.
In primavera, viene calato in mare un complesso di reti e cavi chiamato isola, la cui estensione può raggiungere i cinque chilometri. È la tonnara, la trappola per i branchi di tonni rossi lì di passaggio.
Le reti sono composte da cinque camere disposte ad arte e i pesci, magnifici esemplari di oltre un quintale, si addentrano nelle maglie più interne di quel labirinto sottomarino, fino all’ultimo recinto, la camera della morte.
I tonni intrappolati vengono circondati dalle barche guidate dal Rais. I lembi delle reti vengono tirati, togliendo il mare e lo spazio vitale alle prede.
I tonni impazziscono; code e pinne si agitano furiose. I tonnaroti issano i pesci sulle barche usando arpioni.
Il mare diventa rosso, considerato di buon auspicio. A lavoro concluso, i pescatori fanno il bagno nell’acqua sporca di sangue, per festeggiare la mattanza.
A Palermo, è il 12 ottobre 1957. In via Roma davanti all’ingresso del Grand Hotel et des Palmes, fastoso palazzo liberty ed icona della Belle Èpoque sudeuropea, si ferma una cadillac nera.
Elegantissimo in abito d’alta sartoria, scende dal sedile posterioso l’ospite americano. Charles “Lucky” Luciano, padre della moderna criminalità organizzata e guru della mafia globale, è in Sicilia per un summit di affari internazionale.
Insieme a lui, sono volati dagli Stati Uniti i più autorevoli ambasciatori che le famiglie di New York possano avere: Joseph “Joe Bananas” Bonanno, John “Bonaventure” Bonventre, Carmine “Lilo” Galante, Santo Sorge, Frank Garofalo, Vito Vitale.
Nella hall del Grand Hotel gli americani stringono in abbracci di compaesana memoria gli amici siciliani: volano affettuosi baci sulle guance dei padrini italiani come Cesare Manzella, Giuseppe Genco Russo, Don Mimì La Fata, Calcedonio Di Pisa, Nicola “Nick l’americano” Gentile, Salvatore Greco “Cicchiteddu”e il giovane ambizioso Angelo La Barbera.
Quella che sembra un’allegra rimpatriata è un incontro storico che fissa le strategie di business per il futuro di Cosa Nostra. È il conclave della nuova mafia.
Gli uomini d’onore di due continenti scelgono per la riunione, durata quattro giorni di accese discussioni, l’appartamento al primo piano, stesso luogo dove decenni prima Richard Wagner compose il terzo atto del suo “Parsifal”. I camerieri zitti e discreti in giacca color crema spingono carrelli con caffettiere d’argento, liquori, vassoi di pasticceria, e poi si dileguano chiudendo le porte.
Il fumo di sigari e sigarette è tanto.
Se gli americani hanno fatto tanta strada, innanzitutto è perché quella terra rappresenta, anche per chi ha creato nuovi imperi malavitosi oltreoceano, la Mecca, il luogo sacro, l’origine. Ma Palermo non è solo meta di un pellegrinaggio simbolico nell’antica patria. Padrini e gangster discutono e decidono.
All’ordine del giorno ci sono varie importantissime questioni.
- Questione prima: si sancisce la superiorità rappresentativa delle famiglie siciliane. Le linee guida per i rapporti tra l’isola e il Nuovo Mondo sono definite dai siciliani che garantiranno il buono e profiquo svolgimento degli stessi.
La sala del trono rimane a Palermo. - Questione seconda: far cessare i violenti dissidi tra le fazioni sicule, il cui eco degli spari si ode fino a Brooklyn. La pax mafiosa è fondamentale per gli affari, in pace si fanno più soldi, non si attira pericolosa attenzione; l’unione fa la forza, meglio stare assieme che divisi a farsi la pelle.
- Questione terza, la più importante: l’eroina. Con gli stupefacenti si guadagna bene, è giusto che anche i vecchi se ne rendano conto.
Altroché contrabbando di sigarette o pizzo, con l’eroina si fanno i miliardi. La droga è il futuro, presto le più grandi città dell’occidente conosceranno la polvere proibita ricavata dai papaveri d’oppio turchi o provenienti dalle vie dei mercanti di veleni dell’Estremo Oriente che hanno floride piantagioni tra le tigri del Triangolo d’oro.
Il buco infame crea eserciti di consumatori schiavi a vita; è un prodotto perfetto, è un vizio che fidelizza il cliente definitivamente. I conti svizzeri degli uomini d’onore s’ingrasseranno di zeri.
A ben vedere, le famiglie americane avevano posto speranze e milioni di dollari in investimenti caraibici per fare di Cuba la base di tutto: gioco d’azzardo, contrabbando, puttane, e laboratori e basi logistiche di smistamento per gli stupefacenti. Ma, mannaggia Batista, i barbudos di Castro avevano guastato la fiesta.
La Sicilia, per tradizioni, vincoli di sangue, e sporche alleanze con le istituzioni dello Stato, rappresenta una validissima alternativa al piano cubano. Dalla Turchia e dal Sud Est Asiatico verranno i carichi di materia prima oppiacea, poi raffinati in laboratori italiani e spediti al di là dell’Atlantico per le vene affamate dei negri e dei disperati di New York, Chicago, Minneapolis, New Orleans...
La mafia siciliana cambia pelle, la ricchezza economica e quindi di conseguenza il potere, crescono. Nuovi assetti si delineano nell’isola.
I pescecani hanno fame.
I primi ’60 sono gli anni del boom economico. L’Italia si sviluppa, si modernizza, distribuisce benessere. A Palermo, invece, tra gli organi occulti ma nemmeno troppo dello “stato parallelo” tira una brutta aria.
C’è tensione tra le poltrone della Commissione interregionale e della Commissione provinciale o Cupola.
Alcune righe per capire cosa sono queste istituzioni di stampo mafioso sono utili per avere un’idea dell’habitat di riferimento. Immaginiamoci un organo direttivo di criminali d’alto lignaggio banditesco che si riuniscono per discutere sulle questioni più importanti del mondo mafioso e per prendere decisioni strategiche d’ampio raggio. Dunque ingerenza e penetrazione nella politica italiana, grandi appalti, droga, alleanze, attentati, omicidi eclatanti, condanne a morte e via dicendo.
Ce n’è da discutere, perbacco!
La Commissione Interregionale, il vertice di Cosa Nostra, o se preferite la sua testa di vipera, ha una composizione molto interessante. Sei seggi, sei province, sei rappresentanti degli interessi delle famiglie di quelle province. C’è un qualcosa che può ricordare, seppur con devianza, le signorie rinascimentali, con i loro poteri, eserciti, cospirazioni.
E allora eccoli i neo-signori feudali, capibastone di feudi sotterranei, riuniti nelle masserie di campagna, nelle sale dei ristoranti, nelle sale di prestigiosi club come il Circolo della Stampa di Palermo, a parlare di affari.
Ci sono i rappresentanti delle famiglie di Palermo, Catania, Agrigento, Enna, Trapani, Caltanissetta. A capotavola siede il Segretario, colui che guida l’organo di potere supremo, e in quell’inizio di decennio è Salvatore Greco “Cicchiteddu – l’uccellino”.
È stato nominato per il suo prestigio e perché rappresenta la vecchia guardia, l’aristocrazia mafiosa, rispettabilissima nel contesto zoologico di parassiti, squali, avvoltoi, iene - e dei tanti conigli.
La Commissione Regionale conosciuta anche come Cupola è il consiglio di amministrazione della mafia per Palermo e provincia. Probabilmente, la costituzione di questo organo direttivo è stata decisa proprio durante il famoso meeting del ’57 al Grand Hotel et des Palmes.
L’organigramma gerarchico della Cupola ha un disegno preciso e ne ricalca il modello nordamericano. Apriamo la mappa di Palermo, pensiamo a strade e quartieri divisi a seconda delle aree di influenza delle cosche. Ogni due e tre cosche confinanti costituiscono una zona denominata mandamento, quartieri-feudo.
Il capo-mandamento è eletto dai capi-famiglia di quella particolare zona, ed egli avrà il potere di partecipare alla Cupola.
La gerarchia politico-militare-affaristica delinea anche i ruoli minori: sotto il capo-famiglia ci sono i luogotenenti, ovvero i capi-decina che controllano l’esercito di picciotti.
La Cupola di Palermo è formata da otto seggi di altrettanti capo-mandamenti, e all’epoca dei fatti di seguito narrati il Segretario (e boss dei boss) della Commissione Regionale è sempre lui, Salvatore Greco.
Nel 1962 le divergenze in seno al gran consiglio criminale si fanno acute. Chi dà problemi e mette zizzania è Salvatore La Barbera, capomandamento di Borgo Vecchio, Porta Nuova e Palermo Centro dove capo-famiglia è suo fratello Angelo.
Giovani e spregiudicati questi La Barbera, si son guadagnati i gradi sul campo, senza paura, senza pietà.
Sebbene ben introdotti nelle cosche che contano e osservanti della tradizione criminale isolana, non hanno lo stesso sangue degli altri boss - uomini della vecchia guardia, custodi dell’antico potere della lupara.
I La Barbera son ambiziosi, i La Barbera rompono la minchia.
Non si può, troppi conflitti d’interesse.
Ma se la regola fosse adesso applicata, molti dei “signori” della Commissione dovrebbero presentare le dimissioni e la composizione della Cupola stessa ne verrebbe stravolta.
Il reclamo della lex mafiosa investe i doppi titoli di Calcedonio Di Pisa del mandamento della Noce, Michele "il Cobra" Cavataio dell’Acquasanta (foto), Mariano Troia di San Lorenzo, Antonino Matranga di Resuttana, Cesare Manzella di Cinisi, Salvatore Manno di Boccadifalco.
Si cerca un dialogo in extremis, la guerra non gioverebbe a nessuno. Cesare Manzella cede la carica di capo-famiglia di Cinisi ad un volto che diverrà famoso nella storia della criminalità organizzata: Gatano “Don Tano” Badalamenti.
Ma non basta di certo, gli schieramenti son già definiti, c’è in gioco tutta la geografia delinquenziale di Palermo e provincia. Basta solo una scintilla.
E allora eccolo il casus belli: madame eroina. Nel febbraio 1962 vengono investiti dei soldi per una compravendita di droga.
Salvatore Greco, i fratelli la Barbera e Cesare Manzella ci mettono la lira, e non poca. Vogliono importare lo stupefacente ed esportarlo poi fino agli amici newyorkesi di Manzella, che ha buoni agganci dato il suo burrascoso passato americano.
L’affare viene affidato ad un altro membro di spicco della commissione, Calcedonio Di Pisa, che compra la merce dal contrabbandiere corso Pascal Molinelli.
Il carico fa rotta dall’Egitto fino a Brooklyn, ma quando i “bravi ragazzi” di Nuova York aprono le casse, c’è un problema. Molto serio. Ne manca parecchia, di roba.
Forse quel cuinnuto di Calcedonio ha fatto il furbo?
Oppure è stato quel cugghiuni di Manzella a far la cresta?
La terza ipotesi appare come la più probabile, visti gli sviluppi bellici.
I boss si scaldano, il sospetto aleggia tra gli uomini d’onore, le signorie brigantesche mettono in allerta gli eserciti di picciotti.
La Commissione si riunisce, la tensione è alle stelle. Nel vano e ultimo tentativo di mantenere la pace, Calcedonio Di Pisa, il principale accusato nella vicenda della truffa dell’eroina, viene scagionato.
Salvatore La Barbera non ci sta!
“Va a ghittari saungu ru curi, viddani!”
Il tavolo delle discussioni è rovesciato.
È guerra.
In piazza Principe di Camporeale, il giorno di Santo Stefano del 1962, nei pressi di un chiosco-tabaccheria, Calcedonio Di Pisa viene freddato da tre killer armati di revolver e mitra. Nessuno ha visto nulla, nessuno ha sentito gli spari. Popolo di ciechi, popolo di sordi.
Gennaio 1963, Raffaele Spina il braccio destro di Calcedonio, viene ferito a pistolettate, e dopo un paio di giorni la dinamite devasta lo stabilimento di bevande gassate di Giusto Picone, un altro membro della cosca di Noce, la contea del Di Pisa.
Salvatore “Cicchiteddu” Greco, esige il sangue dei La Barbera, lui e gli altri amici non hanno dubbi sulla paternità dei delitti che stanno stravolgendo Palermo. I fratelli devono crepare!
Intanto, Michele Cavataio boss dell’Acquasanta si compiace, il suo piano diabolico sta funzionando. Tutto sta procedendo come aveva ordito. Il mandante dell’omicidio di Calcedonio, difatti, è lui!
I sicari sono suoi picciotti, ma agendo in questo modo ha ottenuto di far ricadere immediatamente la colpa sugli odiati Salvatore e Angelo La Barbera.
Quei fetusi ora sono nel mirino, oggetto di una vasta caccia all’uomo in tutta la regione.
Scaltro, questo Cavataio detto “Il Cobra”: è un furbo serpente dalla lingua biforcuta e dal morso velenoso. Nell’acquario dei pesci grossi si sta troppo stretti e le prede non bastano per tutti, scatenando la guerra tra le famiglie si può ottenere con il sangue degli altri una nuova distribuzione di poteri e territori.
Gli squali si divorano tra loro, lasciando spazi vuoti ai predatori usciti indenni dalla lotta, quelli più opportunisti, doppiogiochisti, calcolatori. Cavataio ha molta fame, vuole ampliare la sua area d’influenza.
È la cospirazione del Cobra.
Secondo un pentito, quando La Barbera si presenta per conferire d’innanzi agli altri capi, gli saltano addosso, lo strangolano e ne seppelliscono poi il cadavere.
Rimane però, ancora vivo e pericoloso, Angelo La Barbera (foto).
In febbraio un’autobomba scuote il paese di Ciaculli, la casa dei Greco salta in aria.
Nelle settimane successive, un gruppo di fuoco spara all’impazzata contro una pescheria uccidendo due uomini e ferendone altri due. Volevano seccare Angelo, che riesce a rimanere illeso mentre i proiettili rovesciano cassette di capesante, dilaniano polpi, trafiggono spigole.
Palermo è come Chicago, scrivono.
Due giorni dopo la fazione di Palermo Centro risponde con le esecuzione di due mafiosi ritenuti traditori.
Il 26 aprile 1963 un altro botto cattura l’attenzione dei media. Un’autobomba uccide due membri dell’ “equivoca società”, come viene indicata Cosa Nostra nei giornali del tempo.
Succede a Cinisi e la vittima è assai eccellente.
Il boss e membro della Cupola Cesare Manzella si reca nella villetta di campagna di famiglia, dove è sempre parcheggiata la sua Alfa Giulietta. Ad attenderlo, come sempre, il suo fattore, uomo di fiducia.
Quella però non è la sua macchina, è una vettura identica, messa lì come trappola.
Manzella apre la portiera.
È l’ultimo gesto che compie in vita sua.
Cinisi per un istante trema come se ci fosse il terremoto.
Angelo La Barbera va a Milano. Ma non si illuda di scappare dalla sentenza già emessa tempo fa. In una notte di maggio, il mafioso trentanovenne, professione “industriale”, sta guidando per le vie della metropoli con la sua Opel.
Si accosta ad un marciapiede di viale Regina Giovanna. Due altre macchine gli piombano addosso, sbucano da altre strade dove si erano appostate come belve cacciatrici.
Scendono due killer e fanno fuoco a ripetizione senza esitazione. Il parabrezza dell’Opel va in frantumi, il guidatore viene colpito una, due, sette volte ma reagisce, estrae a sua volta il ferro e spara per salvare la pelle.
Ci riesce, miracolosamente, anche con la faccia aperta da un proiettile che gliel’ha scassata, mette in fuga gli altri figghi i buttana. In ospedale gli estrarranno sette proiettili più uno, un antico souvenir di battaglie del passato.
Furbo, doppiogiochista, lingua lunga, si potrebbero raccontare numerosi aneddoti sugli inizi da contrabbandiere e mercenario dei La Barbera, sulle sue attività di narcotraffico tra Sud e Nord America, sul suo ruolo nella seconda guerra di mafia (tranquilli, ne parliamo tra due settimane), sulla sua preziosissima collaborazione - dal punto di vista giudiziario ma anche storico - quando si pentì e raccontò Cosa Nostra al giudice Giovanni Falcone.
Per ora, limitiamoci a dire che Buscetta è sì schierato a parole con Angelo La Barbera ma che in realtà lo tradisce alleandosi con la fazione di Salvatore Greco.
Ed è anche questa l’epopea truce della mafia: tradimento, pugnalate alle spalle, baci e abbracci mortali, impugnando di nascosto pistole al ventre di “amici”.
Il tutto, naturalmente condito con l’ingrediente principale, il collante supremo, l’unico per cui valga la pena ammazzare e farsi ammazzare. Il denaro, e che altro?
Le vicende continuano drammatiche ed incalzanti. Al sopravvissuto di Milano vengono messe le manette ai polsi. Nel frattempo, giù a Palermo, il Cobra esce dalla tana con le fauci spalancate.
A lui si uniscono altre forze per chiudere definivamente la partita e regolare tutti i conti in città e provincia.
Spari.
Cadono in agguati sgherri della cosca della Noce, di Santa Maria di Gesù, di Ficarazzi.
Salvatore Greco capisce che c’è un nemico più pericoloso dei La Barbera.
L’uccellino è in pericolo.
Nella notte tra il 29 e il 30 giugno 1963, a Villabate, un’autobomba esplode sotto l’autorimessa di Giovanni Di Peri, vicino al clan dei Greco, facendo crollare il primo piano di un edificio e ammazzando due persone.
Gli attentatori non sono stati avari con la dinamite, una ruota dell’Alfa Romeo è ritrovata a 150 metri di distanza.
La mattina del 30, una telefonata anonima avvisa la questura che una macchina sospetta, una Giulietta (alle cosche del tempo le Alfa Romeo piacciono molto per i grandi botti), è parcheggiata solitaria in una stradina di campagna di Ciaculli, vicino alla provinciale di Gibilrossa. Carabinieri, polizia, artificieri accorrono sul posto.
Le portiere dell’auto sono spalancate. Sul sedile posteriore è adagiata una bombola del gas con una miccia rudimentale che qualcuno ha acceso e poi spento. Per la squadra artificieri non è difficile rendere quella rozza bomba innocua.
Mizzeca! È una trappola, la bombola è solo un’esca!
I carabinieri s’avvicinano per ispezionare il mezzo. Il tenente Mario Malausa apre il cofano della Giulietta.
Non farlo!
Lampo, boato, detriti, schegge, fumo, grida, brandelli, carne, arti. Dalla campagna circostante, gli abitanti vedono un fungo di terra e polvere alzarsi dagli aranceti, come un’eplosione atomica in miniatura. Anche questa volta gli attentatori non sono stati parsimoniosi con l’esplosivo. Muoiono cinque carabinieri e due militari dell’esercito.
Seguono funerali di Stato, alte cariche in lutto, indignazione pro forma a breve termine. Il morto si piange per tre giorni, il quarto giorno le lacrime sono asciutte.
La firma della strage di Ciaculli è del Cobra: è stato Michele Cavataio, forse aiutato dal doppiogiochista Buscetta, a compiere l’attentato ricorrendo alla medesima strategia strisciante usata con successo nei mesi precedenti, cioè uccidere nascondendo la mano, per far ricadere la colpa su terzi.
Una reazione dello Stato ferito comunque c’è. I briganti l’han fatta stavolta troppo grossa e l’opinione pubblica italiana vuole giustizia.
Avvengono retate, la provincia palermitana viene militarizzata, manette stringono polsi, oltre duemila gli arresti.
Secondo Don Masino Buscetta la polizia sembra impazzita.
Pare essere un nuovo capitolo della soppressione del brigantaggio. La mafia fiuta il grave pericolo e fa una cosa che gli è sempre riuscita piuttosto bene: si rintana nell’ombra e nel silenzio.
Muti!
“Calati juncu ca passa la china - calati, giunco, fino a che passa la piena del fiume.”
Il 6 luglio, la prima Commissione Parlamentare Antimafia inizia frettolosamente i lavori.
Una Commissione dello Stato contro la Commissione dell’antistato.
La seconda si scioglie al sole d’estate, evapora. Salvatore Greco prende la strada della latitanza all’estero, così fa pure Tommaso Buscetta.
Nel 1968 si svolge a Catanzaro il “processo ai 117”, ovvero ai responsabili della prima guerra di mafia, imprigionati dopo la strage di Ciaculli.
- Angelo La Barbera è condannato a 22 anni di carcere.
Nel 1975, nel carcere di Perugia, durante l’ora d’aria, tre detenuti siciliani riescono ad accedere all’infermeria dove La Barbera è ricoverato per un’epatite.
Lo uccidono a coltellate. - Salvatore “Cicchiteddu” Greco è condannato a 10 anni in contumacia.
Fuggito in Venezuela muore in esilio a Caracas di cirrosi epatica nel 1978. - Tommaso “Don Masino” Buscetta è condannato a 10 anni in contumacia.
Da latitante diviene il boss dei due mondi
Michele Cavataio e tanti altri possono festeggiare. La maggior parte degli imputati vengono rilasciati per insufficienza di prove o per aver già scontato la pena in attesa di giudizio (guardacaso, uno di questi è proprio il Cobra: solo 4 anni, la sua condanna).
Si ritiene che l’ultimo atto della guerra sia stata la bomba di Ciaculli del 1963, ma chi scrive si prende la libertà di portare l'orologio un po' più avanti per concludere i fatti storici legati al conflitto criminale: è il 10 dicembre 1969, è il giorno in cui schiacciarono la testa al Cobra.
Dopo la burrasca dei ’60 e la fine delle persecuzioni giudiziarie, a Palermo le cosche rimettono il naso fuori dai covi, il periodo dell’occultamento può dirsi finito, Cosa Nostra può ritornare in strada da padrona.
Si discute per la ricostituzione della Cupola provinciale. Cavataio vuole farne parte a tutti i costi, il Cobra striscia affamato, le sue ambizioni non sono state appagate.
Il Triumvirato, che suona come un’istituzione di antico potere uscita da libri di storia romana, non è d’accordo sul riciclo di Cavataio perché il Triumvirato sa.
I tre sovrani sanno degli intrighi del Cobra, delle sue stragi compiute per additare altri come colpevoli. I triumviri organizzano la resa dei conti.
“C’è da pulire la stalla”.
Un commando inter-cosche di sei elementi indossa divise della polizia di Stato e si arma con mitra beretta MAB38 e fucili a canne mozze. Cito due killer su tutti, le star della mattanza: Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Eccoli lì, all’inizio della loro feroce scalata al potere, conciati da sbirri fasulli e determinatissimi a fare strage.
Il manipolo di assassini si presenta negli uffici della ditta edile Moncada in Viale Lazio, Palermo.
È sera e piove.
Negli uffici dell’impresa di costruzioni, oltre a quel bastardu di Cavataio ci sono il proprietario dell’impresa e socio in affari del Cobra, Girolamo Moncada, il gorilla di costui, alcuni dipendenti e i figli di Moncada.
Quando il gruppo di fuoco fa irruzione, il più giovane e spaventato tra i killer, Damiano Caruso della cosca di Riesi, spara impulsivo iniziando la baraonda di morte. In pochi metri quadri è battaglia, in una manciata di secondi è tempesta di piombo.
Cadono uomini, crivellati.
Provenzano manca il Cobra che estrae la sua fedele Colt che gli ha dato il famoso soprannome e trincerato dietro una scrivania vende cara la pelle.
Crolla a terra fulminato un sicario corleonese, Calogero Bagarella; il Cobra ferisce anche Caruso e Provenzano ad una mano.
Ancora raffiche e spari all’impazzata.
Silenzio improvviso, fogli di carta svolazzano negli uffici, fumo e odore di polvere da sparo.
Oltre a Bagarella, sono morti la guardia del corpo di Moncada e due dipendenti completamente estranei ai fatti e lì per sfortuna.
Provenzano è conosciuto anche con il sinistro nomignolo di Binnu u’ tratturi, il trattore che dove passa distrugge tutto, al pari di un moderno unno.
E vedendo cosa combina in quelle stanze di Viale Lazio, possiamo dire che è un soprannome assolutamente meritato.
Binnu è in piedi, vede il nemico immobile a faccia in giù sotto una scrivania, pieno di piombo in corpo ma non ancora al creatore. Lo tira fuori per i piedi.
Ma il Cobra vuole dare l’ultimo morso, Cavataio si gira di scatto, groviera umana ancora viva, ha in pugno la Colt Cobra che vuole uccidere ma click!
A vuoto!
Il ferro è scarico, il Cobra ha esaurito il veleno. Che scena da film. È il turno allora di Provenzano ma il mitra Beretta anche lui fa click!
Inceppato!
E allora il MAB38 diventa clava che colpisce la testa del Cobra non una, ma tante volte, fino a spaccarla come un cocomero.
Il nemico è finito con un colpo di pistola raccattata lì vicino, nel casino di bossoli e sangue.
In Viale Lazio riecheggia l’ultimo sparo.
La strage compiuta è il capitolo finale della mattanza numero uno che ci mostra l’entrata in scena di nuovi protagonisti nel violento dramma che è la storia della mafia.
Riina, Provenzano, Leggio (o Liggio) del clan di Corleone, saranno gli spietati artefici della mattanza numero due e del golpe palermitano, che racconteremo tra due settimane.
Indossate i giubbotti antiproiettile.
Federico Mosso
@twitTagli
Per approfondire:
- “I padrini dei due mondi nel summit delle Palme”, articolo di Repubblica del 12 ottobre 2007.
- “Giovane crivellato di rivoltellate nell’auto da misteriosi sicari scesi da altre vetture” articolo della La Stampa del 25 maggio 1963 sull’agguato ad Angelo La Barbera
- “Venti omicidi, violenze, furti e sequestri, tragico bilancio dei mafiosi di Ciaculli” articolo della La Stampa del 25 ottobre 1967 sul processo ai 117 di Catanzaro.
- “Esplodono a Palermo due auto caricate a dinamite” articolo della Stampa Sera del primo luglio 1963, sulla strage di Ciaculli.
- “A Ciaculli la mafia in Giulietta” articolo della La Stampa del 2 luglio 2003 sulle stragi della prima guerra di mafia.
- “Riina ordinò di "pulire la stalla", noi pulimmo e lui divenne il capo assoluto di Cosa Nostra” articolo del Messaggero del 30 novembre 2007 sulla strage di viale Lazio
- Giovanni Falcone, Marcelle Padovani “Cose di Cosa Nostra”, BUR - Rizzoli editore.
Note Musicali:
- Ennio Morricone "Al Capone's Theme - The Untouchables"
- Folk siciliano "Vitti'na crozza"
- Rita Pavone "Come te non c'è nessuno"
- Enzo Mazzara "U sciccareddu"