Il bello delle grandi città è che, per quanto alienato ti senta, trovarti un micromondo sarà comunque possibile. Facile, addirittura. A ben vedere è per questo che il mio sogno di indipendenza si limita a un monolocale. Altro che ville al mare, ché poi con l'umidità vengono i reumatismi. Basta con le idealizzazioni bucoliche! In fondo la campagna ha odore di letame e troppe zanzare in estate. Senza contare i galli, che tendono a svegliarti ad orari inumani. Naaa, io chiedo solo asfalto. Tanto asfalto. Tonnellate di asfalto condite da luce al neon. Basta che, appena uscita, io abbia sempre qualcosa da fare. Sì, insomma: prendi il concerto degli Estopa a Parigi. Mica è stato l'unico, di un gruppo spagnolo. C'è un'intera associazione, nella capitale francese, che si dedica a diffondere la cultura iberica. Contattano band d'oltre Pirenei. Le fanno esibire in sale di piccola o media capienza. E ci aggiungono, a contorno, un sacco di attività collaterali a tema. Hanno anche una radio, fate un po' voi. Ogni Domenica trasmette i maggiori successi pop della penisola iberica. Organizza concorsi. Mette in palio dei premi. Anche essere filo-ispanici è un po' meglio, se vivi in una grande città.
Ci riflettevo Venerdì scorso, quando la mia compagna di avventure accennava en passant al ricco programma sull'Andalucía Gitana. Me lo mostrava sullo schermo del pc. Locandina un po' pacchiana,d'insistenza Alhambrica. C'erano mostre fotografiche sul flamenco. C'erano spettacoli di baile. C'era Manuela Carrasco – Manuela Carrasco, capite?!- ad esibirsi quello stesso giorno, obbediente alle leggi di Murphy e al mio scarso dono d'ubiquitá. Mi scapperebbe anche un'imprecazione, ma in un post su Parigi non sta bene. Uh la lá. Mon Dieu. In ogni caso, la scelta sarebbe valsa la pena. L'ho capito sin da quando la scritta “Cabaret Sauvage” ha fatto comparsa nel mio campo visivo. Il fiume, sulla mia destra, come un generatore d'aria gelida. L'eco ancora lontana del soundcheck a catapultarmi nell'attesa. Qualcuno che supera a passo svelto, con una qualche non meglio specificata cartellina in mano. E luci al neon. Luci al neon dappertutto. Quasi a ricordarmi – e perché, poi? - il musical del Moulin Rouge. Allora non importa, se la fila é molto piú lunga di quanto ci aspettassimo. Se non abbiamo mangiato, e io ho il terrore di svenire. Se, mentre Céline mi abbandona in cerca di surrogati calorici, sento che il sangue, dentro me, é ormai ridotto a ghiaccio tritato. No, nemmeno questo importa. Perché, saró anche a Parigi, ma attorno a me in gran parte parlano spagnolo. E in fondo basta questo, per sentirsi a casa. La sala, poi...Dio, la sala é bella davvero! Costruita sulle immagini architettoniche di un circo vecchio stile. Platea circondata da un piano rialzato su cui si ergono tanti, eleganti, tavolini rossi e oro. La marea umana, scopro in un accenno di sorpresa, ci si butterá a pesce. Cosí, senza troppi sforzi, riusciamo a guadagnarci un'altra prima fila. E gli spagnoli...ragazzi, a me gli spagnoli mettono sempre allegria. Non parlo dei Muñoz, adesso. Non ancora. Ora mi riferisco al pubblico urlante che, con tutto il rispetto, alza il termometro di tre gradi almeno. Rispetto ai francesi, sí. Ma anche rispetto a noi. Perché allo spagnolo medio non importano le cornici: lui ce l'ha nel DNA, il buonumore. Lui, gli occhi illuminati da un orgoglio patriota (e forse anche da qualche drink) si sa comunque sempre – e meglio d'altri – divertire. Mi ricorda l'eramus, d'un tratto, il Cabaret Sauvage. A dirla tutta, mi ricorda anche un po' i mondiali. L'atmosfera di quel bar di Parma, circondata da quelle stesse bandiere, quando nel 2010 la selección sconfisse l'Olanda. E io, dimentica dei miei natali, stavo per gettarmi dentro a una fontana. Come allora, i cori “yo soy español, español español” si alternano ad “Alcol, Alcol, Alcol, hemos venido a emborracharnos y el resultado nos da igual”. E a me viene in mente Grace. Il Carnevale di Cadiz. Le bottiglie di Sandevid col tappo giallo. A me viene da ridere, fondamentalmente, un bel po'. Anche se accanto a me, in realtá, c'é un parigino. E mica uno qualunque, no. Un ubriaco. Di quelli molesti, che ogni tre canzoni circa ti scomodano per andarsi a prendere una birra. E piú birre bevono, piú la loro capacitá di coordinamento muscolare diventa difficile. Finendo col rovesciarti un bicchiere sul tuo piumino. E tu, al solito “Keep Calm”. “Lo siento”. “Keep Calm”. E poi un'altra birra. Sposti il piumino. Poco male, la ribaltano sulla sciarpa. Ancora “Keep Calm”. Respirerai Heineken per tutto il giorno e mezzo a venire, ma “Keep Caaaaalm”. E poi, piú birre bevono, piú diventano socievoli. E attaccano bottone. La voce impastata. Una miscela di lingue francamente intellegibile. Sempre la stessa solfa, ripetuta cinque volte. Sempre sulle canzoni che, guarda caso, amo di piú. - [Frase misteriosa in francese]- Lo siento, no entiendo, no hablo francés. - Ah, hablas español!?- Sí. - [frase misteriosa in – suppongo – spagnolo ]- Lo siento, no te he entendido. - [frase misteriosa in lingua a caso]- Eeeeehhh?! - Quieres una cerveza?
Sul serio: non credevo che l'avrei mai detto, ma rimpiango le ragazzine isteriche che mi fracassano i timpani di striduli Guaaaaaaaaaaaaaaaaapoooooooooooo ad ogni concerto di Dani Martín. Tra l'altro, un tizio dello staff indossa la maglietta del tour Pequeño. E a me prende un raptus di nostalgia. Comunque, che vi devo dire? Meno male che Vino Tinto l'hanno giá fatta. Tra le prime in scaletta, a continuare l'esaltazione iniziata con l'incipit di Mañanitas. Meno male che han giá fatto anche “Ya no me acuerdo”, in assoluto il mio brano preferito degli Estopa. Cantato da José tutto cuore, rabbia e polmoni. Mi sono emozionata. Forse anche perché non me l'aspettavo.
E tutto sommato, dai, non mi posso lamentare. Certo, l'ubriaco, col passare del tempo, si é sempre piú comodamente stravaccato sul palco al grido rauco de “Los chichos, los chichos lalalala los chichos”; ma se non altro mi lascia tranquilla anche per tutta la parte flamenco-rumbera del concerto. Un cambio di sound e formato che spezza il ritmo rock della prima e dell'ultima parte, catapultandomi in una dimensione parallela. Il mio micromondo, per l'appunto. Un micromondo da pelle d'oca. E' una delle parti meglio riuscite del concerto, secondo me. Peccato solo che la naturalezza delle palmas altrui faccia sentire la mia vena da impostora gitaneggiante alquanto fuori luogo. A ben vedere, forse avrei dovuto accettarla, quella cerveza. Anzi, facciamo due.
Comunque. La vera rivelazione del concerto degli Estopa é stata in realtá Ludovico Vagnone. Nel caso in cui stesse leggendo – non si sa mai- gli faccio ciao ciao con la manina. Spiego: Vagnone suona la chitarra con loro. Se non erro ha un trascorso coi Pooh e con Alejandro Sanz. E- come il nome vi avrá suggerito – é al cento per cento italiano. Un italiano che, stando alle biografie che si trovano online, si é innamorato della Spagna al punto da volerci rimanere. Insomma: un degno rappresentante dello spirito di un blog che, come ho giá piú volte ricordato, proprio sotto la stella degli Estopa é nato. E giuro che la rima non era voluta. Ricordato-Nato, intendo. Vabbé.
Poi, i Muñoz se ne sono andati. E' successo dopo circa tre bis, tre ovazioni con piedi sbattuti a terra, centoventisei “los chichos, los chichos”, e una stretta di mano per ciascuno. I Muñoz, che giocano sulle loro scarse nozioni di francese e, nonostante un tour mondiale estenuante, su quel palco si divertono davvero. Perché si vede, accidenti. Si vede eccome, in ogni singolo sorriso. I due fratelli di Cornellá, sorridenti e affiatatissimi, hanno lasciato il Cabaret Sauvage in una festa appena cominciata. Un dj metteva musica spagnola. Ancora ritmi rumbeggianti. A suon di palmas e accenni di sevillanas, la gente giá iniziava a ballare. Ballare come piace a me, intendo. Senza paranoie. Come, quando e con chi capita. Ballare mentre canti a squarciagola. Ballare per sfogare tutta la gioia che hai in corpo. Ballare muovendo le dita in posture flamenche, e poi prenderti in giro. E poi ordinare un drink. Ballare come ogni fine settimana per i nove mesi di Erasmus, in definitiva. Dio, non so neanche dirvi quanto mi fosse mancato! In una grande cittá puoi rivivere l'erasmus, capite cosa intendo? Puoi guardarti gli Estopa dalla prima fila e dopo scatenarti sulle note di Melendi. Dico: puoi forse volere altro, se vivi in una grande cittá? Ma, per quanto quella pista attragga il mio corpo come una calamita, resta il fatto che non ho cenato. Perché due biscotti con sopra disegnata una faccina sorridente io non li considero cenare. E vedete: io, se non mangio, non ragiono. Lo stomaco, con i suoi brontolii post adrenalina, finisce sempre e comunque per dettare le sue regole. A Céline, poi, non so nemmeno se andasse, di ballare. In fondo, lei in Erasmus mica c'era. Allora infilo il giubbotto. Mi avvolgo attorno al collo la sciarpa gusto Heineken, e saluto mentalmente la possibilitá quasi perfetta delle copie. Un attimo prima di rigettarmi nel freddo, col la coda dell'occhio, scorgo l'ubriaco. Si sta dimenando in modo poco aggraziato di fronte ad una bionda coi capelli corti. Manco a dirlo, ha una birra in mano. E sono quasi certa stia cantando “Los Chichos”.