Italo Tricarico pittore di Vigilanti Memorie Insonni

Creato il 05 febbraio 2013 da Cultura Salentina

5 febbraio 2013 di Augusto Benemeglio

Italo Tricarico, è assenza che risuona quella di questo artista anarchico, ribelle, contro tutto e tutti, è come se mancasse lo spirito vitale del Salento coi suoi fichi d’india e i rovi e i profumi e il canto dei suoi colori accesi, vivi, che sapevano essere violini archi trombe e delicati passaggi di clarini, ci manca quella musica che ti va nelle vene e da queste nel cuore ti si accoglie; ci manca quel frangersi che è l’amore ascoltato, accolto, conservato, il rosso del mattino che rapido trascorre come ombra d’ala sulla terra; ma negli ultimi tempi, quando ci si incontrava ti vedevo sempre più spento, pallido, ritorto, vizzo, nei tuoi confini di quattro pareti sudate, nude, che sapevano di salso, e le tue ali (alla Garcia Marquez) s’erano afflosciate, avvizzite, incollate le piume, era impossibile che potessi ancora volare, nonostante i tuoi sforzi, ti venivano meno le energie, ti stavi spegnendo come candela consumata.

Ma ti voglio ricordare quando eri l’Italo vitale che attraversava le pareti del cuore del Salento, come “ il più salentino tra i pittori “ come disse Antonio Mele. E parlava della tua arte come di un incanto puro, esplosione cromatica e sentimentale, di humus nobile e popolaresco, viscerale carnalità, di un poeta che anziché in versi, esprime coi colori il suo inno alla gioia di vivere, simboleggiata dal sole, dai girasoli, dal mare, dalla luna, dai pesci, dai papaveri accesi come fuochi luminosi dall’anima nera. E quei papaveri rossi, ma anche gialli e blu, ricorrono in quasi tutte le sue tele come i pescatori di Gallipoli, lemuri notturni stilizzati sotto la luna che inargenta il castello e la città bella, tra le reti, o nel grembo materno di case-lampare. E poi quadri di fichi d’india come sogni di silenzi colorati, graffiti dell’anima meridionale, groviglio di crude dolcezze (le spine e il miele) e di vigilanti memorie insonni, folgorazioni che lui solo sa cogliere dal torbido presente, o ascoltare nelle seduzioni delle voci e delle profezie, o tradurre dai segni tra macchie e siepi e muretti a secco, nella ridondanza di curve di una superficie ellenistica, nel remotissimo silenzio del primo giorno di vita che prepara gli accordi per i milioni di anni a venire con il diafano misticismo esoterico, nella trepida presenza di carne incredula, nella labile trasparenza di una bellezza barocca che fugge e suggestiona il contrasto, la dicotomia tra il caduco e il sublime.

Italo Tricarico dipinge tramonti, girasoli e fichi d’india, musicanti guaritori, lune calanti, sciamani, tutto è trasformato nella sua mente, nella sua pittura, in una sorta di Eden gallipolino, dove donne sensuali e bellissime sono fasciate di silenzio, sotto la casta luna, o immerse nelle olive, o nelle distese di papaveri, quadri fertili che fanno nascere mondi e qualcosa di vivo. Sotto il suo pennello il paesaggio salentino diventa emblema del mondo, si fa tenero e violento, denso di terrestre spiritualità, pregno di ancestrale irrequietezza, allucinata memoria arcaica, sentimento di solitudine, Eden agonico. Il tutto, in un linguaggio cosmico ed elementare come lo sono gli elementi della natura, in una sinfonia di toni e di spazi, in un’accensione cromatica che volge al rosso profondo, un inno alla sua terra, da cui un giorno dovette emigrare, con la famiglia, perché non ci poteva campare. Al nord, dove si recò a vivere, la sua arte si nutrì delle memorie di Gallipoli, di stucchi, gerani, mignani corti e stradine labirintiche, dei bassi e dell’odore di orina, della cultura popolare e barocca che gli si era appiccicata addosso, di quella vitalità pigra oscura fonda passionale cieca che se non trova sbocco diventa solo rabbia impotenza malinconia e nostalgia.

Nei suoi quadri rivivevano i ritmi e le stagioni di Gallipoli, e così riecco le focareddhe, le processioni dell’Urnia, la scapece di Santa Cristina l’acquarulu, la puzza di pesce, i tramonti da “bestie macellate”, il salnitro, la calce, le rocce ispide, la profusione di nero e la miseria. Erano come tanti spigoli per la sua anima che non trovava mai riposo e si voltava e rivoltava su quei cari umidi spinosi dolci infernali sublimi luoghi dell’infanzia, che intanto gli si andavano trasformando dentro e diventavano la sua ideale regione poetica, alimento perenne del suo estro, inesauribile fonte mitologica delle sue invenzioni.

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