ITINERARI DELL’ODIO, TAPPA 2 – FINO AL PENULTIMO RESPIRO di U.U Taccuino All’Idrogeno

Creato il 13 giugno 2014 da Wsf

Sogni turbolenti. Sono in piedi, nudo, sudato, chiuso in una gabbia gigante assieme ad una folla di uomini e donne nella mia stessa condizione. Siamo su un treno merci che sfreccia a tutta velocità attraverso un paesaggio mutevole: deserto, foresta, città, palude. Mi manca l’aria, tutti si agitano, urlano, saltano. Le gambe mi cedono, sto per essere schiacciato, sento le mie ossafrantumarsi sotto il peso di tutte quelle persone…
-Sveglia! Svegliati!
La voce di mia madre mi accompagna fuori dalla fase REM con la delicatezza di un pugnale nel cranio. Lentamente socchiudo gli occhi e li rivolgo verso l’orologio sul muro. Segna le 8 e mezza.
-Ma, perché mi svegli così presto? È domenica…- La mia voce esce a fatica, quasi disperata.
-Ti ricordi cosa hai promesso di fare oggi?- mi domanda con disappunto. La mia mente gira veloce come una carriola senza ruote a causa delle tre ore di sonno accumulate, ci metto quasi un minuto a mettere insieme i pezzi. –Cazzo, la nonna- bisbiglio con la morte nel cuore –ma non dicevo sul serio, mi serviva una scusa per non andare a ballare!- provo a giustificarmi, senza preoccuparmi molto di passare per un figlio degenere, ma è tutto inutile. –Ormai le ho detto che venivi anche tu, non vorrai darle un dispiacere vero? Usciamo tra venti minuti.- Con le mani stringo la calda trapunta che avvolge il mio corpo un’ultima volta. La separazione è traumatica, lo sbalzo termico supera i dieci gradi. Immergo la faccia sotto l’acqua rovente, urlo, la immergo una seconda volta sotto l’acqua gelida, urlo una seconda volta, mi vesto e sono in macchina, stravaccatosui sedili posteriori. Davanti a me mia madre, mio padre alla guida. Partenza.
-Non potevate parcheggiare quella salma in un posto più vicino a casa?- domando senza troppi riguardi. L’ospizio in cui mia nonna sta attendendo la morte è immerso nel nulla cosmico della pianura padana, un Triangolo delle Bermuda fatto di nebbia.Per raggiungerlo ci vuole più di un’ora, se non ti perdi. Mia mamma mi fulmina attraverso lo specchietto retrovisore. –Sai che l’abbiamo cercata, ma in città costavano troppo, li pagavi tu 3000 euro al mese col lavoro che non hai?- Non le rispondo, non ho voglia di litigare, mi metto a fissare il panorama fuori dal finestrino. Il passaggio dalla città alla campagna è fluido, graduale, a fatica si percepisce. Il tiepido sole che avevo salutato al mio risveglio già annaspa in un mare di bruma, ma riesco ancora a distinguerne i contorni brillanti. I campi brulli ai margini dell’autostrada, leggermente infossati rispetto al livello della carreggiata, sembrano delle vasche piene di cotone impalpabile. Ogni tanto spunta la sagoma di un cacciatore, accompagnato dal suo segugio. Mi domando con che coraggio se ne vadano in giro a sparare con una visibilità prossima allo zero.Devono proprio amare l’odore del sangue degli uccellini morti.
Ho come l’impressione che più ci avviciniamo a destinazione, più il mondo intorno a me invecchi progressivamente, e io con lui. Il manto stradale perde regolarità e si riempie di crepe, gli alberi sono scheletri neri senza foglie, il colore dell’erba è più vicino al marrone che al verde, l’aria è immobile come all’interno di una bara. Metro dopo metro, sento la mia pelle raggrinzire, la mia schiena incurvarsi, i miei capelli imbiancarsi.
Quando parcheggiamo nel giardino della casa di cura la metamorfosi è completa, sono un ammasso unico di rughe e malattie. Con passo incerto scendo dalla vettura, sorretto dalle mani dei miei genitori, che mi accompagnano attraverso i vari reparti della struttura. Arriviamo in un ampio salone, pieno di sedie a rotelle, dentiere e infermieri. Qualcuno guarda la televisione, altri giocano a carte, altri ancora fissano il vuoto fuori dalle finestre, tra loro c’è anche mia nonna.
Ci avviciniamo e la salutiamo in coro, lei non ci sente, allora le appoggio la mia mano rugosa sulla spalla e urlo più forte: –Nonna siamo noi! Ciao!- Lei si gira, ci nota, accenna un sorriso, biascica qualcosa e fa quello per cui non avevo mai voluto venire a trovarla in questi mesi: si mette a piangere. Lo fa ogni volta, mi avevano raccontato i miei. Quellasituazione mi mette parecchio a disagio, e peggiora quando lei, in uno slancio di affetto non richiesto, mi afferra le mani e me le bacia. La voglia di ritrarle è forte, ma riesco a trattenermi dal farlo. Mia mamma le propone di andare a fare un giro sulla sedia a rotelle. –Come se fosse in grado di risponderti- le dico, ancora sconvolto per quel contatto ravvicinato.
Le ruote, sgonfie e arrugginite, scivolano a fatica sul linoleum. Una marcia funebre in confronto alla nostra andatura sembra la finale olimpica dei cento metri. Mia mamma parla ininterrottamente per stimolare il cervello incartapecorito di mia nonna, mio padre si guarda intorno distrattamente, spazientito e annoiato.Con uno sforzo immane faccio avanzare la sedia lungo il corridoio costellato di porte. Il mio processo di invecchiamento non pare essersi arrestato, sento che sto diventando sempre più decrepito ad ogni passo. Quando arriviamo all’altezza della camera di mia nonna percepisco chiaramente il mio cuore fermarsi. Sono morto. Credevo sarebbe stato molto più traumatico, è proprio vero che quando giunge la tua ora non te ne accorgi. Restiamo in quella stanza a discutere del niente per circa un’ora, nel frattempo la mia carne in putrefazione diviene preda dei vermi, l’odore del mio cadavere permea la stanza,non abbastanza per contrastare il fetore sprigionato da mia nonna, un cocktail di pannolone sporco, piaghe da decubito, lacrime, e quell’aroma di muffa e umidità tipico di tutti gli over-80. Mia mamma mi intima di fare conversazione, io allora snocciolo tutta una serie di domande standard: come stai, cosa mangi, com’è il tempo. Lei risponde tra un pianto e l’altro. Finalmente suona la campana delle 12, l’ora del pranzo. Facendo appello a tutte le energie che mi rimangono spingo quella maledetta sedia a rotelle di nuovo nel salone principale, dove tutti gli ospiti della casa sono stati prontamente riversati dai loro parenti, desiderosi quanto me di congedarsi il prima possibile da quella armata di mummie. Se sommassi insieme tutti i loro anni sicuramente otterrei un numero superiore a dieci milioni. Faccio accomodare mia nonna al tavolo più vicino, le do un bacio sulla fronte (dietro ordine di mia madre) e mi allontano sorretto da mio padre, anche lui a modo suo provato dall’esperienza. Deve proprio amare sua moglie per accompagnarla tutte le domeniche in questa specie di anticamera del cimitero.
Una volta fuori dall’edificio sento come un colpo di martello in pieno petto: TUMP! È il mio cuore che ha ripreso a battere. Il sortilegio che mi aveva avvolto le membra si indebolisce man mano che la macchina si allontana da quel mare di nebbia: la pelle riprende colore ed elasticità, le cataratte si dissolvono, i capelli ricrescono, la schiena torna dritta. La mia città mi da il bentornato restituendomi la giovinezza che mi era stata sottratta.–Certo che la fai sempre drammatica tu!- mi dice mia mamma. Non le rispondo, non ho voglia di litigare.

[CONTINUA…]

Prima Tappa: http://wordsocialforum.com/2014/04/03/itinerari-dellodio-tappa-1-disco-inverno-di-u-u-taccuino-all-idrogeno/


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