D'inverno ci svegliamo a turno per caricare la stufa di legna. La raccogliamo in pineta e ne facciamo cataste che teniamo in terrazza, divise per freschezza e spessore dei rami. La resina se brucia dà una fiamma sommessa e c'è profumo, le cortecce sembrano coltelli, nelle crepe dei pini feriti abitano animali piatti che credo mangino il legno. Ma dalle labbra della scalfittura cola resina in ricordo del colpo; le pigne, invece, appiccicano senza discernere. Se sono ancora sdegnose ancora verdi i petali formano una massa compatta in cui dentro c'è già succo, il nutrimento dei pinoli è oleoso sa di salse o dolci, ma fuori è una mano chiusa tutta nocche sui frutti che ancora non esistono ma ci sono già.
Ora, io ho giusto una pigna in mano quando Florio apre la porta. Non posso credere che l'abbia accolta. Che lei sia qui. E invece l'ha aiutata a salire le scale le ha dato un bicchiere d'acqua mi ha chiesto di mettere musica.
Indosso una tunica di lana, i calzettoni, sono senza trucco e scapigliata. Sul momento il brano migliore mi sembra Ma mere l'oie. La Padrona lascia che Florio la deponga sul divano: quando tocca il bicchiere gli anelli fanno un rumore duro e le sono scesi i capelli. Lascia che la forcina le penda dalla tempia, che è cadaverica, e si concentra sull'acqua. Quando ha bevuto l'orlo ha un'aura di pomata per labbra opaca e mattone e ha un respiro come di caldaia. Nondimeno va ascoltata, se non altro perché paga la metà del nostro affitto. Florio si appoggia a una mensola con le palme incrociate l'una nell'altra sulle reni, per una sensazione di pena il labbro si arriccia sotto l'attaccatura del naso e non presta attenzione ai rami che scoppiettano e fanno rumore di camino e caldarroste.
La Padrona tace. La peggiore libertà che possa concedersi una persona nella sua condizione. Cosa sono i pensieri, quale inizio e quale fine abbiano, se condividono in parte o del tutto la natura degli animali inferiori, come si trattasse di vermi o di farfalle, o anche di manifestazioni protozoarie. Di certo se c'erano insetti cresciuti sotto la scorza dei pini che abbiamo fatto a pezzi, li ho bruciati tutti; e la musica di Ravel ormai è languida e le ultime note suggeriscono motivi di commozione e applausi.
Florio le siede accanto e si rammarica della ballerina Scilla intossicata di droga mesi prima nel locale in cui le dosi viaggiavano anche dentro le casse della sua chitarra; poi si ferma, guarda me e guarda lei. La Padrona gratta qualcosa appiccicato al bicchiere. Non si può raccontare a una donna i motivi che l'hanno condotta alla quasi ebefrenia, o ricordare gli amori passati, nel suo caso una ragazza che adesso è sformata dai farmaci e non parla quasi più, e aspettare ch'essa scoppi o si confidi. Del resto nessuno sa cosa sia costato a questa marescialla ghiotta e volitiva, come sia stato duro lasciare che un uomo la prendesse per un braccio (un uomo!) e la conducesse in una casa che non è nemmeno una casa, ma sono quattro stanze di musicista aperte per caso nel cuore della notte da un'altra donna che nemmeno conosce ma che già la commisera senza alcuna delicatezza nei confronti del trucco disastrato delle borse sotto gli occhi dell'aria disfatta. Questo la Padrona ha pensato di me nei momenti in cui Florio – in silenzio dopo aver parlato e convinto dell'autorità e la dipendenza che i molti rapporti fugaci pensava avessero instaurato fra lui e lei – nei momenti in cui Florio si aspettava un moto di disperazione o gratitudine in risposta al suo gesto di naturale protezione maschile. Lei ha pensato questo, e ha fatto bene.
CARLA: Fa freddo
FLORIO: Ma Carla, la stufa è accesa. Vuoi una coperta?
No, no, la Padrona (Carla, apprendo che ha un nome duro) non vuole una coperta, non vuole niente, si punta un'unghia sul petto, non ha freddo per via del fuori. È per via del dentro. E quelle questioni minuscole, e come crolla tutto.
CARLA: Ho quarantasette anni: quarantasette. Dillo un paio di volte. Quarantasette. Non è un merito. Arrivano. Tutto questo non può succedere. Non può. E lei chi è?
IO: Sono Fosca, signora Carla. Lei sembra una donna distrutta.
C: Distrutta, sì. Morirò.
IO: Capita a tutti.
C: Florio, ti sei portato a casa una cretina. Ti pare che se potessi morire come cristo comanda sarei qui a grattare un bicchiere sudicio? Andate anche a letto, scommetto.
IO:Dormiamo separati, signora Carla.
C: Fai saltare i nervi, sul serio. E da quando si scopa nei letti? A maggior ragione se ti vesti così, quando vai a dormire. Sei conciata come uno spaventapasseri.
IO: Io la rispetto, signora Carla, ma lei ha un nome calloso. Posso chiamarla Padrona?
C: Così va meglio. Non avresti un bicchiere di vino, piccina?
FLORIO: Carla, ti prego.
La Padrona Carla scosta una mano di Florio che le era scesa sulle spalle e piange con lunghi singhiozzi. Dalla taschina del tailleur tira fuori un fazzoletto, con un lembo asciuga il naso e dopo gli occhi. Florio mi prende per le spalle, parla piano e mi sembra di essere tornata piccola.
FLORIO: Ha tentato di uccidersi, Fosca.
CARLA: Florio! Non ti permetto!
Ma Florio continua a parlarmi.
F: L'ho trovata nel suo studio con una boccetta di sonnifero in mano.
C: Animale! Magari dille anche che mi hai infilato due dita in gola per farmi vomitare meglio!
La Padrona adesso si torce le mani, la bocca sembra un grande buco rosso. Ma Florio continua:
F: Fosca stava dormendo, credo abbia il diritto di sapere perché l'abbiamo svegliata.
C: Fosca che? Fosca chi? Cosa vuoi che mi freghi di questa cretina. Scilla, ecco, cosa. Sono andata a trovarla in ospedale. Un mostro. Un sacco bagnato. Non parla. È gialla. Dio mio, dovresti sentire come puzza. Aveva quelle cose, per il cervello, tutti quei fili. E i denti neri. Non mi ha nemmeno riconosciuta. Le ho portato i suoi fiori preferiti e lei ha lasciato andare, un odore terribile, ho dovuto chiamare un'infermiera per far portare via la padella. Gorgogliava.
IO: Non deve sentirsi in colpa, signora Padrona.
C: Certo che no piccina, Scilla ha fatto male a infilarsi la coca su per il culo, lo sappiamo tutti.
F: Carla!
C: Florio, ti assicuro: l'ha messa anche lì. Perché non dirlo. Si spalmava le natiche di cannabis, si imbellettava le poppe di coca e se le faceva succhiare. Ma era tanto dolce... mio dio, fuori di testa!
Le emozioni sono un fatto chimico e muscolare. Fermarsi è impossibile, ma se si pensa di essere fermi, se lo si pensa nella testa, all'improvviso (o forse con calma, questo non lo so) si sviluppano lentezza e attenzione. Nella lentezza e nell'attenzione c'è lucidità. Nella lucidità si colgono la chimica e la muscolarità delle emozioni.
La rabbia. Eccola, nel suo stato ancora inincendiato, nel suo stato, per così dire, potenziale. Non lasciarla andare, osserva. Prima, cronologicamente prima che arroventata è fredda, prima che espansa è compressa. Prima che allo stomaco e alle corde vocali prende al respiro. Per la verità stringe, e la pressione porta con sé l'idea dell'esplosione. Ha una fase verde minerale e blu terso, ha una fase livida. La rabbia è mandibolare e ottusa. Nel volto segue una meccanica laterale. Carla è rappresa ai lati degli occhi e della bocca, tirata agli zigomi, raggrumata nei masseteri. Non so cosa farà. Per adesso si è lasciata incendiare, ha lasciato che la rabbia le comprimesse il suo contenuto, viscerale, lungo le pareti che separano il suo dentro dal suo fuori. Si è lasciata gonfiare. Lo si sente: il sangue nel fegato, gli acidi nello stomaco, lo spremere degli intestini. La Padrona adesso ha una pompa chimica che la tira su. E così imbellettata di schiuma, disorganizzata e violenta nei movimenti del corpo, così rigurgitante, dopo aver riso pianto e bestemmiato, si è chiusa la porta dietro le spalle e ci ha lasciati soli. Come due scemi, aggiungo io.