Iya monogatari - Oku no hito - (祖谷物語 -おくのひと- , The Tale of Iya). Regia, soggetto e montaggio: Tsuta Tetsuichiro. Sceneggiatura: Kawamura Masaya, Tsuta Tetsuichiro, Ueda Masayuki. Fotografia: Aoki Yutaka. Suono: Kamijo Shintaro. Personaggi e interpreti: Takeda Rina (Haruna), Ohnishi Shima (Kudo), Tanaka Min (il nonno), Murakami Hitoshi (Akira), Ishimaru Sachi (Kotomi), Christopher Pellegrini (Michael), Nishi Tomie (la nonna), Kawase Naomi (dr.ssa Amamiya). Produttori: Tsuta Tetsuichiro, Ueda Masayuki. Durata: 169 minuti. Prima mondiale: Tokyo International Film Festival, ottobre 2013. Uscita in Giappone: 15 febbraio 2014.
Punteggio ★★★★
Elegia della Natura in forma di fiaba moderna, The tale of Iya ci racconta la storia della giovane Haruna, che vive con il nonno in uno sperduto villaggio di montagna.
La ragazza, che anni prima era stata salvata dall’uomo dopo aver perso i genitori in un incidente, condivide con l’anziano un’esistenza semplice e legata ai cicli della natura. Vivono di poco, senza elettricità né gas, nel mezzo di un paesaggio naturale quasi incontaminato. Non del tutto però. Anche in quel frammento di paradiso la “civiltà” avanza le sue pretese, propone i suoi compromessi: si vuole costruire una galleria che colleghi facilmente la zona con aree più urbanizzate e nonostante le proteste di uno sparuto gruppo di eco-attivisti, i lavori proseguono. Intanto ad Iya arriva anche Kudo, un cittadino che ha deciso di iniziare una nuova vita, più semplice e naturale, e il cui destino incrocerà quello di Haruna. Ma “nulla rimane lo stesso”, neppure nelle fiabe, e così anche la giovane di Iya dovrà ad un certo punto affrontare i cambiamenti della vita. Sarà per questo motivo che lascerà le montagne per cercare lavoro a Tokyo.
C’è un po’ di tutto nel film di Tsuta Tetsuichiro: lo scorrere naturale del tempo, il problema dell’inquinamento e dell’abbandono della terra, i movimenti ecologisti, l’importanza di preservare un corretto rapporto con la natura. Il regista stesso dichiara che non sembrano più esistere figure come Haruna e il nonno nel Giappone moderno: ecco perché il suo film è una bellissima fiaba evocativa che come tutte le fiabe che si rispettino ricorda, e così facendo insegna. Ci ricorda quello che eravamo, quali erano i valori di una società antica e rurale, i suoi pregi e i suoi difetti. E lo fa disseminando qui e là nella storia un po’ magia e di mistero: bellissima la sequenza dei manichini di stoffa realizzati da un’anziana del paese che una notte improvvisamente prendono vita e si muovono come sospesi a metà tra spiriti antichi e zombie moderni.
I protagonisti, soprattutto Haruna e l’anziano, sono veramente personaggi da fiaba: lei bella ed innocente, lui con lineamenti che sembrano quasi scavati nel legno, come un totem, come una statua. Il vero protagonista è però a mio avviso l’ambiente naturale che cambia a seconda delle stagioni, che avvolge i suoi figli e non perdona il temerario Kudo, arrivato fin lì dalla città, entusiasta, ma sprovveduto, e che come tale si troverà a patire la fame quando sopraggiungerà l’inverno. Sarà però proprio lui a trasformarsi alla fine nel nuovo “anziano”, nel nuovo (reincarnato) riferimento “totemico”…
Il fatto veramente sorprendente del film è che si tratti del secondo lavoro (il primo era stato Yume no shima – Island of Dreams, del 2009, vincitore del premio del pubblico al PIA Film Festival) del giovanissimo regista (aveva 28 anni all’epoca delle riprese) e nonostante ciò riesca a mantenere per tutti i centosessantanove minuti un ritmo ed una brillantezza di immagine notevoli.
Colpisce la fotografia ricercata di quest’opera in 35 mm, lo stile che riecheggia atmosfere del cinema classico, la spettacolarità delle riprese dei paesaggi delle montagne di Tokushima.
La costruzione della galleria sembra infine una chiara metafora della ferita che gli uomini non paiono curarsi di infliggere alla madre terra, la quale però – si può forse ipotizzare dal finale, che vede Haruna nuovamente in viaggio verso Iya, dove ancora si trova Kudo – come ogni genitore sarebbe pronta ad accogliere i suoi figli qualora decidessero di tornare a lei. [Claudia Bertolè]