Il problema con film di Clint Eastwood sono le "great expectations", nel senso che ci ha ormai abituato ad un livello tale che un prodotto solo "buono" viene vissuto comunque come un passo falso. Ed è questa, purtroppo, l'impressione che lascia la visione di J. Edgar, l'ultima fatica del nostro autore ottantaduenne preferito.
Il film analizza la figura di J. Edgar Hoover, il quasi onnipotente direttore del FBI, in carica dal 1924 al 1972. Hoover è una figura controversa: da un lato ha creato il più importante ente di polizia giudiziaria statunitense dotandolo di tecniche e procedure investigative d'avanguardia, dall'altro ha mantenuto carica e potere per quasi cinquanta anni probabilmente ricorrendo al ricatto e di certo a quello che oggi chiameremmo giornalisticamente dossieraggio.
Un personaggio così complesso richiede chiarezza nella tesi del film per evitare di iniziare troppi discorsi e non concluderne neanche uno.
L'unico aspetto invece su cui la pellicola prende una posizione veramente chiara è l'ambigua sessualità di Hoover, che secondo alcuni avrebbe avuto nella figura del proprio vice Clyde Tolson un compagno fedele nella vita oltre che sul lavoro. Per dovere di cronaca, secondo Wikipedia (del cui rigore storico è però lecito dubitare) la verità non sarebbe mai stata accertata e permangono diverse opinioni al riguardo. La sceneggiatura di Dustin Lance Black (Milk di Gus van Sant) gioca la carta dell'analisi psicologica a supporto dela propria tesi: troviamo dunque un padre debole, una madre autoritaria, una segretaria che assomiglia alla madre, e l'amante-collega che assomiglia al padre (fateci caso).
La repressione della sessualità di Hoover si fa quindi tendenza maniaco-compulsiva, proiezione verso un nemico facilmente identificabile (i bolscevichi in particolare e gli estremisti in genere) delle proprie minacce interiori. J. Edgar ha un solo obiettivo nella vita: il controllo. Infatti raccoglie, classifica ed utilizza senza scrupoli qualsiasi informazione e strumento che gli permetta il mantenimento di un mondo organizzato secondo i suoi desideri. Nel frattempo Hoover si circonda di persone rassicuranti e fedeli e contrasta senza pietà qualsiasi avversario, reale o presunto. Nella consapevolezza dell'impossibilità di raggiungere il controllo perfetto ed infallibile, nel film (sarebbe interessante sapere se l'episodio è storico o di fantasia) Hoover cambia la storia "pilotando" la propria biografia, fino ad inventarsi di sana pianta alcuni episodi, come Tolson gli rinfaccia in una drammatica scena.
Morale della storia: Hoover era gay e la repressione della propria personalità lo rese una persona disturbata e tormentata. Tesi interessante ed anche plausibile, ma non si sarebbe potuto esprimerla in un po' meno di due ore e un quarto, ed approfittare del tempo guadagnato per parlare anche d'altro?
Il tema mi pare poco adatto alle corde di Eastwood, che si trova più a suo agio quando ha a disposizione un'idea forte che può sviluppare, magari facendo finta di parlare d'altro come in Gran Torino o anche nel recente Hereafter. Anche in Invictus veniva analizzata una figura storica (Nelson Mandela), ma lì veniva preso in esame uno specifico episodio, forse nemmeno così importante nell'arco di una vita intera, con un riconoscibile valore esemplare. In J.Edgar invece si esce dalla sala senza poter tenere dentro un grande "...e quindi?".
Detto questo, il film si segnala per una ricostruzione storica estremamente accurata; come già in Changeling e nel dittico Flag of our fathers/Lettere da Iwo Jima, Eastwood si dimostra molto convincente nel ricreare l'atmsofera dell'epoca, probabilmente anche grazie alla collaborazione di Gary Fettis, set decorator di tutti i film di Clint dal 2006 in poi. I costumi sono di Deborah Hopper, altra collaboratrice fissa piuttosto a suo agio con il vintage, (per esempio erano opera sua anche gli eleganti costumi di Scomodi Omicidi di Lee Tamahori)
Billanti le prove degli attori: Leonardo di Caprio interpreta un Hoover sia più giovane che (parecchio) più vecchio di lui. A mio giudizio rende molto bene l'ambiguità di un personaggio che si maschera: orgoglioso ma a tratti mellifluo, a tratti vulnerabile, ma più spesso deciso e impenetrabile. Visto in lingua originale (grazie alla lodevole iniziativa del cinema Centrale di Torino) Di Caprio è magistrale nell'imitare la cadenza della parlata, suppongo maniacalmente identica all'orginale. Il doppiaggio italiano a quanto si dice è invece piuttosto penalizzante.
Dopo il ruolo "gemello"di entrambi i fratelli Winklevoss in The Social Network di Fincher, Armie Hammer si conferma talentuoso nel ruolo di Clyde Tolson: benchè stereotipato, il suo personaggio è credibile e piacevole. Peccato per il trucco di Tolson da vecchio, che definire dilettantistico è un complimento.
Un ringraziamento speciale alla dott.sa O. Bertoldo per l'analisi psicologica dei personaggi, anche se l'ho utilizzata solo come spunto di partenza per riflessioni di cui mi assumo in toto la paternità.