Jan Fabre, in più di quattro ore, il dubbio lo crea poco a poco. Attraverso un estenuante girotondo di attese, di rimandi, di corpi che si mescolano e che ripropongono fino alla nausea la semplicità, trasformandola in qualcosa di Altro, ci mostrala genialità delle piccole cose, quello che si nasconde sotto la superficie degli eventi che tutti reputiamo normali solo perché abituati a vederli sempre.La strada passa, come spesso accade, attraverso la reiterazione,l’estremizzazione, il parossismo, l’esasperazione. Da una coppia che si schiaffeggia al suono di L'amour est un oiseau rebelle, a un susseguirsi infinito di morti e risurrezioni che sembrano essere lunghe e monotone quanto un elenco telefonico, attori e personaggi diventano lo specchio di noi stessi, intrappolati nella reiterazione schizofrenica di gesti semplici che, per sentirci vivi, cerchiamo di caricare dei più disparati significati, ma che restano sempre e solo quello che sono: la dimostrazione di quanto non riusciamo a toccarci, a capirci, ad amarci, a spiegarci.Ecco allora che la normalità diventa répétition (che sul palcoscenico, si sa, paga sempre), e il reiterare diventa strumento di analisi che spacca la realtà dei singoli gesti e da loro nuova forma, portandoli al paradosso.Fondamentalmente,su tutto, sempre e solo l’Amore (questa parola così abusata), in tutte le sue declinazioni. Amore per la libertà, per l’altro, per il sacrificio, per la morte, perfino per la sofferenza.
Su tutto, la maggiore capacità di quest’esperienza artistica è sicuramente quella della didascalia (parola tanto odiata in ambito teatrale): gli attori elencano,declamano, cantano, gridano per tutto il tempo i titoli, i luoghi, le date di tutte le opere più innovative, meravigliose, incredibili, pericolose, epocali,e i loro rispettivi autori. Niente di più facile, niente di più banale, forse. Eppure,per chi fa il mio mestiere (ma io credo per tutti gli amanti dell’Arte) la répétition (l’eco?) di mostri come Grotowski, Artaud, Pina Bausch, Wagner, Isadora Duncan (ma anche Shakespeare e Ionesco, Jarry e il Living Theatre, Beckett e Gordon Craig, il Tavolo Verde, Le cocu magnifique, Marat-Sade, l’Opera da tre soldi..) per quanto banale, nozionistica e ‘detta’, spalanca in un momento tutto quello per cui noi esseri umani combattiamo: la voglia disumana di trasformare il mondo. E ci mostra quanto questi mostri passati e moderni abbiano sofferto nel loro impeto creativo, che aveva come unico scopo il rivelare che la Realtà, come noi la vediamo, non è che uno strato di polvere da togliere per liberare una superficie di gran lunga più utile e meravigliosa. E allora, mentre ascoltavo la sequela infinita di nomi, ecco che la forza di secoli e secoli di quel Teatro che salva la vita è ritornata in un attimo, e mi sono sentito di nuovo, e finalmente, affamato.Come mi accade quando prendo in mano una qualsiasi delle opere di Shakespeare emi domando subito dopo ‘come ho fatto a stare più di un mese senza leggere almeno una pagina di QUESTO? Come??’.Perché,spesso, un’opera basta semplicemente nominarla: in un attimo capisci quanto male sei stato senza di essa, e quanto le devi per essere stato salvato ancora una volta. E’ un po’ la sua vendetta per tutto quello che ha rappresentato e che, volente o nolente, rappresenterà.
Daniel De Rossi