L’audace rilettura in chiave gotica di un capolavoro della letteratura di tutti i tempi ci accompagna in un incubo da sogno, come solo le grandi storie sanno fare. Jane Eyre è un film in costume ambientato in una tetra Inghilterra di duecento anni fa che riproduce egregiamente le condizioni di vita, i severi insegnamenti, le perfette location (grazie allo scenografo Will Huges-Jones, alla sua prima opera cinematografica) e, soprattutto, quello che probabilmente oggi definiremmo un “eccessivo riguardo” verso la religione, nei quali si era costretti a vivere allora. Diretto da un giovane Cary Joji Fukunaga (regista del premiato Sin Nombre), Jane Eyre racconta la storia di una ragazza che trascorre forse nel peggiore dei modi i suoi primi diciotto anni di vita: cacciata di casa, punita nel collegio di Lowood, stordita e confusa quando, da sola, varca la soglia dell’adolescenza oltre la quale è udibile lo scalpitio di emozioni sconosciute, deliberatamente ingannata in quello che dovrebbe essere il giorno più felice della sua vita. Sebbene nei precedenti adattamenti dell’omonimo romanzo si fossero utilizzate attrici di elevatissimo calibro, ma sempre e comunque donne, in questo, Fukunaga non tradisce l’atmosfera che avvolge i personaggi, e chiama in causa una giovanissima Mia Wasikowska, che a soli diciannove anni, dopo circa un anno da Alice in Wonderland, dà prova di se stessa in una magistrale interpretazione da Oscar, accompagnata da un profondo Michael Fassbender (nel ruolo di Edward Rochester), col quale la giovane attrice ha stretto un’intensa assonanza, e si sente, dietro le quinte della pellicola. Cresciuta sull’onda del rigore e dell’obbedienza, Jane è una ragazza alla scoperta del mondo e delle persone che lo vivono, coi loro pregi e i loro innumerevoli difetti, e ha un’innata autostima e un’incredibile capacità di agire valutando ciò che è giusto per se stessa in quanto individuo. Ovunque vada sembra trascinarsi dietro una maledizione, frutto delle continue punizioni ricevute, che la portano a vedere ogni luogo come cupamente misterioso, e a sentire suoni che magari non sono mai esistiti, riprodotti da Fukunaga con inquadrature sempre ravvicinate e di spalle all’inatteso, nelle quali è concesso di entrare solo al vento tra le foglie o agli spifferi tra le fessure di una porta, con uno stampo a metà strada tra quello argentiano e quello hitchcockiano. Ma per quanto Jane sia responsabile, è ancora piccola, e l’essere cresciuta tra sole donne non l’ha aiutata, sentimentalmente parlando. Ha ancora bisogno di fare esperienze, di fidarsi, e specialmente di accettare. Di accettare una verità, di accettare un difetto, di accettare le menzogne a fin di bene. È proprio su un’accettazione mancata, infatti, che comincia il film, che si snoda via facendo sulla base di una serie di flashback fino al punto di partenza, tra movimenti di macchina dolci e tremolanti “a mano”, per dipanarsi in un continuo barcamenare tra passato e presente, al fine di mostrare allo spettatore come sia scombussolato il suo stato d’animo, quanto di brutto abbia vissuto, ma anche quanto di bello si sia lasciata sfuggire, e di cosa ha dovuto vivere poi per rendersene conto.
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