Jauja
Creato il 26 novembre 2014 da Frankviso
Lisandro Alonso
Argentina, USA, Olanda, Francia, Messico, 2014
110 minuti
Ambientato nel 1882 in Patagonia: impegnato a combattere a fianco dell'esercito argentino durante la nota Conquista del Deserto, il Capitano danese Dinensen perde le tracce della figlia quindicenne, Ingeborg, fuggita con un giovane soldato di cui si è innamorata. L'uomo, si lancia disperatamente alla sua ricerca, attraversando impavido steppe sconfinate che sembrano condurre a spazi che hanno oltrepassato il tempo...
Dopo aver raggiunto l'apice di una sua personalissima poetica sul viaggio solitario dell'uomo redento con Los Muertos (2004) e Fantasma (2006), l'argentino Lisandro Alonso sembrava successivamente incespicare tra i paesaggi innevati di Liverpool (2008). Film, che in effetti era già sentore di un mutamento nel suo cinema, non tanto percepibile nella forma (che comunque, in Jauja, a suo modo resiste) ma quanto più evidente in una narrazione che fino a quel momento ne soggiaceva taciturna, senza mai scavalcare quella costruzione stilistica tanto rarefatta, quanto carica di magia, di mistero. Mistero che tra l'altro, in Liverpool si infittiva a poco più di metà film con l'inspiegabile scomparsa all'orizzonte del suo protagonista. Tanto che a oggi, piace pensare a costui come una sorta di alter ego del Dinensen/Mortensen che in Jauja, solcata l'aprica terra dei miti Inca, si addormenta pensando alla figlia sulle vette al chiaro di luna (l'unica sequenza notturna, intassellata perfettamente al centro del film con lo scopo di scinderlo nella sua spazio-temporalità), ricomparendo successivamente dal lato opposto di quell'orizzonte per addentrare gli spazi di una dimensione altra, surreale, che assume le fattezze di una landa rupestre e brumosa: forse, proprio quella leggendaria terra di abbondanza e felicità tanto ricercata, a cui fa riferimento il titolo.
Ma per chi scrive, Jauja è principalmente una macchina del tempo, e che rappresenti in qualche modo un tassello importante nella filmografia di Alonso è chiaro; a iniziare da un riesumato aspect-ratio in 4:3 (che ultimamente, sembra ridestare l'attenzione di molti) con gli angoli smussati (pellicola delle origini) per poi procedere, come già accennato, verso una narratività più marcata e di conseguenza, anche a una maggiore inclinazione nell'abbracciare i generi (il western dai riflessi fordiani che illumina la prima metà del film, e il fantastico, che si manifesta nella seconda - personalmente, la migliore). E di certo, manca in buona parte la radicalità del suo cinema primordiale, ripagata però da un utilizzo oceanico della profondità di campo, la cui perdita dei confini rievoca memorabilmente quella del serriano Birdsong. Ma più che a un'autentico bivio, Alonso sembra giunto a una più sostanziale riformulazione di tutto il suo cinema precedente, propagandone le cartografie; moltiplicandone quegli spazi a lui necessari per trascendere la Libertad espressiva/esplorativa che ne ha sempre sorretto i paletti cardine, e sviluppando così un concetto che possa estendersi universalmente. L'impressione che emerge, è che i singoli ambienti finora rappresentati (la foresta, il cinema, luoghi nei quali si muoveva Argentino Vargas, ma ancora delineati da un proprio confine) non riescano più a contenere l'eterno vagare del viandante alonsiano. Esso, infatti trova simulacro esemplare dell'uomo, e della sua essenza, nella figura di un Viggo Mortensen destinato a perdersi attraverso i sostrati del tempo fino a che, dinnanzi a lui, non si palesa quella donna misteriora che avvolta nel buio della caverna le chiede: "ma tu, sei un uomo?". E l'immagine del burattino ritraente le fattezze del soldato Dinensen, prima nelle mani dello stesso e successivamente, in quelle della figlia che si riaffaccia alle soglie dell'epilogo (un terzo salto temporale, un'ambientazione che scenograficamente sembra risorgere dalle memorie del più ispirato Rollin), non fa che sostenere l'incertezza nella risposta dell'uomo: "credo di si", avvalorando quindi l'ipotesi di un'oniricità le cui tracce/simboli (il cane, lo sfogo cutaneo, lo stesso burattino) affioravano gradualmente durante il percorso. In fin dei conti, Jauja è terra dei desideri, e come tale vive, trovando dimora ideale attraverso i nostri sogni. E che essa si configuri come plumbea e rocciosa, o popolata da leoni marini che drizzano il capo alla luce del sole, lo dobbiamo solamente alle emozioni più recondite del nostro inconscio.
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