Jean Daniel Pollet. Vorrei che questo articolo rappresentasse un avvio, la traccia di un lavoro in corso, una rivelazione (concedetemi un po’ di sana presunzione!!!) di un grande autore misconosciuto del cinema contemporaneo, di quanto i suoi film abbiano la capacità di emozionare, di contagiare e arricchire, capovolgendo completamente la prospettiva tradizionale, rifiutando la banalità. E’ un cinema che rinuncia alle star, lontano da tutto quello che definisce lo spettacolo, i suoi premi, cliché e illusioni, che si avventura in spazi inesplorati, mai tentati prima, che ha “bisogno” dello spettatore attivo, critico, aperto all’ascolto e alla visione. Un cinema che in un certo senso mira alla liberazione, ma da cosa? Dalla prigione del racconto, ad esempio, e scioglie le immagini dalle catene discorsive e narrative.
Ai tempi dell’università, il professore di Storia e critica del cinema mi disse: ”Se lo spettatore rinuncia alla propria diffidenza, smette di andare a caccia di messaggi”…nei film di Pollet succede esattamente questo, lo spettatore si mette alla prova. L’emozione ha sempre a che fare con un’idea e in un modo o nell’altro ci si sente complici, sia tramite l’ironia, sia tramite un’intensa meditazione su mondi scomparsi (Mediterranèe).
Mediterranèe: 45 minuti di immagini girate durante un viaggio di 3500km intorno al Mediterraneo. Pollet durante il montaggio usa le inquadrature come fossero parole, come segni. Ogni immagine significa una sola cosa, una sola idea, in modo da poter essere utilizzata come una parola ( che assume il suo significato definitivo solo in funzione del posto che le si assegna in una frase). Questo spiega il motivo per cui una stessa inquadratura è spesso utilizzata parecchie volte in sequenze molto diverse, come una parola può ricomparire più volte nella stessa pagina senza dare l’impressione di ripetizione. Nient’altro che una serie di immagini e suoni, privi di qualsiasi riferimento, portatrici di nessuna finzione, ma variabili, frutto del solo gioco combinatorio della successione e della ripetizione delle inquadrature. Ed ecco che entra in ballo lo spettatore, messo com’è nell’impossibilità di rifugiarsi nella finzione, diventa in un certo senso autore di un film senza autore.
In Pollet il cosmo ed il microcosmo si alternano nell’imprevedibilità del montaggio, un montaggio che certo non appartiene al narrativo, piuttosto al poetico! Non sa nulla di se, si crea e si inventa strada facendo, e forse non è un caso che la sua compagna,Françoise Geissler, fosse anche la sua montatrice. All’inizio c’è sempre uno spazio vuoto, in un’alternanza di inquadrature molto generali e poi molto ravvicinate. Anche quando il cineasta filma gli uomini, si ritrova questo intreccio di vicino e lontano, o sarebbe meglio dire quando Pollet filma “un uomo”: Claude Melki, un grande attore che viene dal nulla e che è scomparso nel nulla, dopo averci regalato delle apparizioni memorabili in Pourvu qu’on ait l’ivresse, Rue Saint-Denis, L’amour c’est gai, l’amour c’est triste, L’acrobate.
Sembra sempre in punta di piedi, con la sua leggerezza e la sua trasparenza, la sua misteriosa energia, burlesco e malinconico allo stesso tempo, paragonato spesso a Keaton. Melki è lo sfortunato che manca di audacia, il Pierrot triste che fa ridere e non ride mai.
Scrive Pollet: “…è risaputo che, quando si parla, si mente, si recita e si tradisce. Nel comico, l’impiego della parola, della battuta, è una viltà. Si pensi al gran lavoro rappresentato dalla concezione di un film comico basato sulle gag, nell’inventiva che ciò richiede…”. Nel film L’acrobate, vide sicuramente esaudito il voto di “mutismo”, certo non per l’assenza di dialoghi! Il lato muto non dipende da un aspetto non verbale del film, ma dal fatto che esso stesso viene in un certo senso superato e completato dal linguaggio del corpo. In questa storia Pollet fa di un inserviente dei bagni pubblici, un campione di tango che conquista la gloria e il cuore della sua bella, abbandonando completamente i dialoghi scritti da professionisti e lasciandosi andare ad una scrittura automatica, molto vicina a quella infantile. I tanghi ci fanno decollare nella commedia musicale, dove la pesantezza della vita reale non esiste più, dove tutto è esibizione. La redenzione sociale e sentimentale di un mediocre attraverso la padronanza di una disciplina, il tango.
La vena realista e burlesca si contrappone con un’altra vena più letteraria e intellettuale e questo rapporto conflittuale con il linguaggio, il desiderio di annullarlo quasi, si ritrovano anche in un’altra sfera: quella della follia. Il tema aleggia su molti suoi film: Tu imagines Robinson, Le sang ed infine L’Ordre , esplorano i temi della solitudine e della chiusura, subite da personaggi o gruppi isolati, anche se in contrasto con il cinema “mutista” di Melki, qui assistiamo ad una vera e propria proliferazione verbale, che si scontra spesso con il problema del monologo al cinema. In questo L’Ordre rappresenta un esempio concreto. Si tratta di un documentario girato nel 1973, Pollet ha voluto raccontare il destino di una comunità di lebbrosi, un tempo relegata nell’isola di Spinalonga , a nord di Creta. Quello che l’autore vuole fare è denunciare l’ingiustizia di cui spesso sono vittime le minoranze, ed ecco allora che la lebbra descrive la follia della società, che respinge lontano da sé tutto quello che è diverso. “La lebbra dei medici è l’ordine”, come indica l’epigrafe del film.
Nel documentario incontriamo una triplice presa di parola: il commento di Pollet e di Maurice Born, la presa di parola”esasperata” di Raimondakis, in cui il capo dei lebbrosi esprime tutta la sua rabbia, infine il commento visivo di Pollet, che percorre le strade e gli edifici di Spinalonga, divenuta un’isola fantasma. Lo spazio asomatico da un lato, la testimonianza di Raimondakis dall’altra, fanno di L’ordre, ma anche di Mediterranèe, Contretemps e Dieu sait quoi veri e propri esempi di “cinema puro”, contemporaneamente muto e totalmente linguaggio, in cui il perno di tutto diviene il montaggio. ” …un montaggio illuminante come per i sogni, in cui non c’è altra logica che quella dell’inconscio…” (Pollet). Qui la macchina da presa penetra nei corridoi, nei vicoli e nelle rovine della prigione abbandonata di Spinalonga, mentre una voce fuori campo commenta alla seconda persona singolare il fenomeno dell’esclusione sociale.
L’ORDRE (1973)
Raimondakis: “E’ da trentasei anni che sono recluso senza aver commesso alcun crimine. Durante questi anni, molti sono venuti a vederci. Alcuni per fare delle fotografie, altri con un punto di vista letterario, per vedere una specie di individui diversi, molti hanno girato dei film. Ahimè, tutti fino ad oggi ci hanno tradito. Nessuno ha comunicato ciò che volevamo e ciò che aveva promesso di mostrare al mondo. alla fine sempre un inganno, una foto e sotto la didascalia che non manteneva le promesse e ci tradiva – e questo ci feriva, perché alcuni volevano mostrare la compassione e altri la repulsione – ma noi non vogliamo essere né detestati e né compianti. Abbiamo solamente bisogno d’amore. Amore in quanto persona che ha avuto una disgrazia, e non come se fosse una specie umana differente, un fenomeno… si, mi avevano cancellato…quando qualcuno si ammalava veniva cancellato, soppresso dal registro civile del suo paese…Forse in voi ci sono dei sentimenti di pietà, forse ci compiangete per la nostra malattia. Tuttavia credo che siamo noi che dobbiamo compiangervi. Poiché, se una muraglia ci separa dalla giungla della vita, abbiamo comunque trovato il senso e lo scopo della vita, proprio qui nella fornace della malattia e dell’isolamento…Fermatevi, ora che siete ancora in tempo perché domani sarà troppo tardi. Alzatevi tutti e ciascuno da solo reciterà il suo ruolo in questo difficile gioco che si chiama la vita, che oggi è più spietata che mai… Fermatevi.”
Infine, vorrei concludere con le parole dello stesso Pollet :
“Credo molto al “pari pris des choses” di Francis Ponge. Ancora prima che noi guardiamo le cose, sono le cose a guardare noi. Questo ha a che fare con i due poli del mio lavoro: da un lato l’immobilità, dall’altro la danza, la vertigine, la trance.Cerco di far si che la poesia e le idee vadano d’accordo. Perché non vanno d’accordo a priori, e per armonizzarle, è dura, molto dura. E’ una questione di addomesticamento, di tempo. Bisogna ricorrere ai paroloni: meditazione, raccoglimento, attesa, riflessione, modestia…Ci vuole molto tempo per cercare di armonizzare poesia e riflessione…Mi sdraio all’ombra dei cipressi e di colpo – non dico che tutto sia capovolto – non ho altro che il cielo in testa. Non parlo del blu di Georges Bataille. Si tratta di un altro blu. Forse quello di Ponge, ad ogni modo il mio”. (Jean-Daniel Pollet)
Articolo a cura di Martha nuovo membro della Non Redazione.
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