Lunedì scorso, due giorni dopo Hillary Clinton, anche Jeb Bush ha deciso di gettarsi nella mischia.
Dopo vari mesi di preparazione, spesi a corteggiare i maggiori finanziatori del partito repubblicano, John Ellis Bush, detto Jeb, ha rivelato quello che tutti sapevano da tempo: si candida alla Casa Bianca.
Dopo suo padre e suo fratello la presidenza americana potrebbe essere appannaggio di un nuovo Bush.
Una realtà che non ha precedenti in una nazione nata, nel '700, anche per rigetto delle monarchie ereditarie europee.
Il più giovane rampollo della famiglia lo sa e proprio per questo ha scelto di togliere il suo cognome dal logo della sua campagna elettorale.
Sui manifesti, sui gadget e sulle spillette di latta si legge semplicemente Jeb!, accompagnato da un punto esclamativo.
I suoi collaboratori hanno spiegato le ragioni di questa scelta come un puro ritorno al passato.
Quando infatti il secondogenito dei Bush si candidò al posto di governatore della Florida, nel 1998, usò solo il suo diminutivo.
Una scelta del genere non è da escludere, tuttavia, evitando di inserire il suo cognome nel logo, Jeb vorrebbe far dimenticare agli elettori che il presidente responsabile di aver condotto gli Usa in due lunghe e sanguinose guerre in Afghanistan e Iraq, George W., è suo fratello.
Indubbiamente non sarà semplice per Jeb riuscire a distinguersi dai suoi familiari e spesso si troverà a dover rispondere a domande insidiose riguardo le loro scelte presidenziali.
Come è già successo quando una persona intervenuta ad un dibattito gli ha chiesto se la decisione del fratello di invadere l’Iraq, dopo aver saputo della assenza di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam Hussein, fosse ancora da considerarsi giusta.
Colto di sorpresa, Bush jr. ha farfugliato che suo fratello aveva fatto la cosa giusta, smentendo però subito dopo con la scusa di non aver capito bene la domanda.
Una gaffe clamorosa che rappresenta un esempio significativo su ciò che dovrà affrontare nel prosieguo della sua campagna presidenziale.
Sono seguiti poi altri momenti di incertezza e affermazioni controverse che gli hanno alienato gli iniziali sostegni ricevuti dagli elettori repubblicani e soprattutto dai grandi finanziatori del suo partito.
Un altro elemento di debolezza per Jeb è anche la contemporanea candidatura alla presidenza del senatore della Florida di origine cubano-americana Marco Rubio.
Il giovane legislatore può contare sul sostegno rilevante dell’ala più oltranzista del Gop, il Tea Party, quella corrente antistato e antitasse che, dal 2010, ha egemonizzato l’ex partito di Abram Lincoln.
Da questo punto di vista, il giovane Bush non ha le stesse chance del senatore: egli infatti si presenta come un repubblicano moderato, la strada migliore per prevalere nella competizione con il futuro candidato democratico, ma non adatta a vincere le primarie di un partito sempre più estremo e spostato a destra.
Non solo, le origini etniche di Rubio potrebbero favorirlo anche tra gli elettori latinos, una minoranza dell’elettorato sempre più consistente in vari stati americani, dalla California al Nevada, dal Colorado alla Florida.
Da parte sua Jeb ha risposto alla sfida di Rubio con l’origine ispanica di sua moglie Columba e con la scelta di usare anche lo spagnolo come lingua in cui lanciare la sua candidatura.
Anche la religione potrebbe essere uno strumento importante per ottenere il voto dei latinoamericani: Jeb, grazie alla moglie, si è convertito al cattolicesimo, il credo più diffuso tra i latinos.
Tuttavia, anche qui, Jeb potrebbe incontrare difficoltà.
In questi giorni, Papa Francesco ha pubblicato la prima enciclica interamente sua, “Laudato si”, una forte condanna delle scelte economiche del nostro tempo, responsabili del progressivo impoverimento delle fasce più deboli e del sempre più grave aumento delle temperature del globo, il noto “global warming”.
Le dure parole del Pontefice non sono affatto condivise dai repubblicani americani che, già in passato, avevano attaccato Francesco.
Ad esempio quando questi aveva criticato la teoria economica del “trickle down”, cioè che l’arricchimento ulteriore di chi già lo era poteva aumentare il benessere di tutti.
Una dottrina alla base della scelta di Ronald Reagan, vero e proprio idolo dei repubblicani, di ridurre le tasse ai benestanti, al fine di permettere lo “sgocciolamento” della maggiore ricchezza anche ai più poveri.
Le stesse considerazioni valgono per il concetto del riscaldamento globale favorito dalle azioni umane, attraverso l’uso dei combustibili fossili.
Il Gop, legato a doppio filo agli interessi economici di petrolieri e produttori di materiali chimici e plastici, nega che sia in atto tale riscaldamento e men che meno che sia opera dell’uomo.
Quindi, il povero Jeb non ha ricevuto un aiuto nemmeno dal suo principale leader religioso.
Infatti, dopo la pubblicazione dell’enciclica papale, Bush si è limitato a dire che il Pontefice non dovrebbe occuparsi di questioni economiche.
Il classico colpo sia al cerchio sia alla botte. Non è la prima volta che lo fa e non sarà nemmeno l’ultima da qui al novembre 2016.