È il 2006 (o giù di lì) e Bennie Salazar è un discografico quarantaquattrenne famoso per aver fondato l’etichetta Sow’s Ear e per aver scoperto i Conduits, un gruppo musicale di grande successo negli anni Novanta. Gira con una Porsche gialla, ha l’abitudine di mettere scaglie d’oro nel caffè perché così spera di risvegliare il suo assopito desiderio sessuale, e la ancor più strana mania di spruzzarsi ogni mattina del pesticida sotto le ascelle.
Durante l’adolescenza era il bassista mediocre dell’inascoltabile gruppo dei Flaming Dildos. Allora, nella San Francisco di fine anni Settanta, il punk si faceva strada mentre la cultura hippy era al tramonto.
Sul retro di una multa Bennie scrive una lista di parole che potrebbe essere una scaletta di titoli di canzoni: «Baciare la madre superiora, Incompetente, Palla di pelo, Semi di papavero, Sul cesso». In realtà, sono i «ricordi imbarazzanti», i fantasmi del passato che riaffiorano uno dietro l’altro infestando il suo presente.
Sempre a New York, poco dopo, c’è Sasha che ha trentacinque anni anche se non li dimostra: quasi tutti gliene danno meno di trenta e i suoi profili online dicono che ne ha ventotto.
Non ancora finito il liceo è scappata di casa insieme a un musicista con il quale ha attraversato l’Europa e l’Asia finendo poi, sola, a sbandare tra la ragnatela dei vicoli di Napoli.
È stata la stagista, poi la segretaria, poi l’assistente di Bennie per dodici anni, da quando si conobbero durante un concerto dei Conduits al Pyramid Club, e fino a che la cleptomania di cui è affetta non ha reso impossibile il loro rapporto.
Vive in un appartamento nel Lower East Side, una casa che le era sembrata «una tappa intermedia verso una destinazione migliore», con una vasca da bagno in mezzo alla cucina, una moltitudine di souvenir di viaggio sui davanzali, e la foto del suo amico Rob morto annegato ai tempi dell’università. E poi, sui tavoli un cumulo di oggetti rubati «le penne, il binocolo, le chiavi, la sciarpa da bambino». I suoi ricordi li tiene lì: «Sembrava l’opera di un castoro miniaturista: una montagna di oggetti indecifrabili ma chiaramente non casuale, che agli occhi di Sasha quasi tremava sotto il carico di imbarazzi e rischi scampati e piccoli trionfi e momenti di pura esaltazione. Conteneva, compressi, anni interi della sua vita». Vuole guarire dalla sua malattia e per questo va in analisi; nel frattempo si stordisce con lo Xanax e relazioni di poco conto.
Sasha e Bennie sono i due personaggi principali, ma le loro sono «solo» due delle storie raccontate nel Tempo è un bastardo, il romanzo della scrittrice americana Jennifer Egan.
Sì, perché loro due sono il centro attorno al quale gravita una miriade di personaggi – a constellation of people, li ha definiti l’autrice in un’intervista alla «Paris Review» – le cui vite si incroceranno, si sfioreranno, si eviteranno, oppure si scontreranno.
Le loro esistenze si aggroviglieranno compiendo percorsi imprevedibili, come ha rivelato la stessa Egan in un’intervista a Martina Testa: «Uno dei motivi per cui le traiettorie dei miei personaggi sembrano spesso imprevedibili è che io stessa non ho idea di cosa gli succederà, mentre ne scrivo. Cerco le mosse istintive, spiazzanti: quelle che non ti aspetti. È questo che mi diverte, quando scrivo. Tutto il mio processo di scrittura mira a rendere possibili queste sorprese. Quando leggo, detesto provare un senso di familiarità: mi fa passare la voglia di andare avanti. Per come la vedo io, uno sviluppo ovvio della trama è utile soltanto nella misura in cui può essere evitato e stravolto».
Ma Egan non li abbandona a sé stessi, non li lascia vagabondare vulnerabili e sbatacchiati in uno spazio che va da San Francisco a New York al Kenya, al deserto e a Napoli: dà loro un senso, un ritmo, li ricongiunge attraverso la musica e il tempo.
La musica è una costante colonna sonora in sottofondo fatta di citazioni e riecheggiamenti, a partire dall’omaggio nel titolo americano (A Visit From the Goon Squad) a Elvis Costello.
Tutti i personaggi, inoltre, fanno parte del mondo musicale e discografico e più in generale dello showbiz. Attraverso il loro transito in questo «luogo» è raccontata una storia che va dall’epoca d’oro del rock, quando la musica era sporca e vera, al nostro presente in cui il mercato discografico non fa che vendere «anemiche produzioni» pop prive di vita e frutto di una digitalizzazione barbara responsabile di un «olocausto estetico». E poi oltre, fino a un futuro a noi prossimo.
E infine la musica è fondamentale per capire che l’opera è un concept album, come Tommy, Ziggy Stardust o The Wall. È divisa in due parti – Lato A e Lato B –, in tredici capitoli che sono brani autonomi e con un proprio titolo ma anche inscindibili da un’unità che li trascende. Un romanzo polifonico più che una raccolta di racconti, dove ogni capitolo è narrato da un personaggio diverso con una sua voce ben distinta, da un punto di vista laterale, e con uno stile, una lingua e una tecnica particolari.
Il tempo, invece, è contemporaneamente protagonista, antagonista, e anche il generatore di impulsi di questo romanzo.
E non è un caso che le parole dell’esergo siano tratte dalla Recherche:
«I poeti pretendono che tornando in una certa casa, in un certo giardino dove siamo vissuti in gioventù, noi si trovi per un attimo quel che siamo stati allora. Sono pellegrinaggi assai rischiosi, dai quali si può uscire con una delusione come con un successo. I punti fermi, contemporanei delle diverse età, è meglio cercarli dentro di noi».
È un tempo che si fa doppio poiché scisso tra un tempo soggettivo della mente che non procede in modo lineare, bensì come un flusso di coscienza, balzando tra passato, presente e futuro senza logica, attraverso la memoria e l’inconscio; e un tempo oggettivo, che al contrario scorre imperturbabile, irrefrenabile, indifferente secondo dopo secondo «un altro, poi un altro, poi un altro ancora».
Si crea in questo modo un inevitabile conflitto tra la mente e il tempo che rimane difficile da risolvere e nel quale è il tempo stesso ad avere la meglio. È quello che fa riaffiorare un passato rimosso e indesiderato attraverso rivelazioni ed epifanie oppure fa svanire tutto ciò che si vorrebbe trattenere perché i ricordi sono inaffidabili. Fa intravedere il futuro incombente e giudice di un presente che è sempre schiacciato. Fa balzi in avanti e indietro, contaminando il presente e il futuro con flashback e invadendo il passato con flash forward. Travolge il romanticismo degli ideali, fa evaporare i sogni, rende i progetti obsoleti e lascia sulla pelle e nell’anima cicatrici e bruciature.
E se così stanno le cose, a questi personaggi non resta che sopravvivere: «Quello che ti sto dicendo è che siamo quelli che sopravvivono. […] Non tutti lo sono. Ma noi sì. Ok?», dice Sasha sul letto dell’ospedale dove giace con il suo amico Bobby che ha appena tentato il suicidio.
«Voglio interviste, articoli, tutto quello che ti viene in mente. Riempimi la vita di roba. Documentiamo ogni cazzo di umiliazione. Perché in fondo la realtà è questa, no? In vent’anni non diventi più bello, specie se nel frattempo ti hanno tolto metà dell’intestino. Il tempo è un bastardo, giusto? Non si dice così?» dice Bosco, un ex chitarrista obeso, alcolizzato e invaso dalle metastasi, anche lui un sopravvissuto, un relitto.
«Il tempo è un bastardo, giusto? E tu vuoi farti mettere i piedi in testa da quel bastardo?» dice Bennie.
Questo bellissimo romanzo ha vinto, tra l’altro, il Pulitzer, il premio più ambito per uno scrittore americano (nel 2010 è andato a L’ultimo inverno di Paul Harding – in passato batterista di un gruppo rock – che tratta anch’esso il rapporto tra un tempo che passa e la vita).
Struggente e ironico, empatico e intelligente, è un’opera dalla doppia anima frutto del virtuosismo funambolico con cui Egan è riuscita a tenersi in equilibrio tra sperimentalismo postmoderno e l’intensità di una narrazione più tradizionale.
Lo sperimentalismo, che si concretizza nel gioco intellettuale di in un’opera frammentata da rimettere insieme, fatta di materiali compositi (pagine autobiografiche, narrazioni in terza persona, profili giornalistici di celebrità, un diario scritto in Power Point, un racconto distopico ambientato in un recente futuro), che si fa esercitazione metaletteraria sull’influenza che hanno le nuove tecnologie sulla scrittura e riflessione su un linguaggio e una lingua che mano a mano diventano idioma di parole svuotate di significato, di «involucri verbali», qui si fonde con la capacità dell’autrice di scrivere un romanzo intenso e coinvolgente, denso di parole e immagini che spesso sfiorano il lirismo.
La sintesi tra queste due anime del libro si può dire sia proprio quel capitolo in Power Point che per la sua stessa natura dovrebbe risultare asettico e impersonale, e invece lascia trapelare, anche nelle pause, negli spazi bianchi, umanità e poesia.
Così si è presi sin dall’inizio in un vortice di emozioni e sfide logiche mentre le pagine corrono via, una dietro l’altra, fino all’ultima parola dell’ultimo racconto. E allora, in mente ritorna Carver quando scriveva: «Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo scritto o letto; magari il nostro cuore o la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del nostro corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, “creature di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Čechov, passeremo alla nostra prima occupazione: la vita. Sempre la vita».
Nota sull’autore
Jennifer Egan è nata a Chicago nel 1962, è cresciuta a San Francisco e attualmente vive a Brooklyn. Oltre a Il tempo è un bastardo (A Visit From the Goon Squad), il suo ultimo romanzo, è autrice dei romanzi ancora inediti in Italia, The Invisible Circus (1995) da cui è stato tratto l’omonimo film di Adam Brooks con Cameron Diaz, Look at Me, finalista al National Book Award nel 2001, The Keep (2006) e della raccolta di racconti Emerald City and Other Stories (1993).
I suoi scritti sono stati pubblicati anche su «The New Yorker», «Harpers«, «Granta«, «McSweeney’s«, «Zoetrope: All-Story« e «Ploughshares«.
Il tempo è un bastardo ha vinto nel 2011 il Pulitzer Prize per la fiction, il National Book Critics Circle Award e il LA Times Book Prize.
Per approfondire:
leggi lo speciale sul sito di minimum fax
leggi la recensione su Wuz
leggi la recensione su Fuori le Mura
Jennifer Egan Il tempo è un bastardo
traduzione di Matteo Colombo
minimum fax, 2011
pp. 400, euro 18