Mettete insieme un ragazzo che studia per diventare parrucchiere, un mafiosetto e un bassista. Aggiungete un pianista scrittore, naturalmente affiatato con gli altri, ed ecco il sound pop anni ‘60, vagamente rockabilly e con qualche lieve venatura di jazz dei Four Season: Frankie Valli, Tommy De Vito, Nick Massi, Bob Gaudio. La loro vita, come se non bastasse essere entrati nella Rock’n’Roll Hall of Fame, è stata raccontata e replicata decine di volte nell’omonimo musical di successo, passato per Broadway e giunto all’orecchio di Clint Eastwood. Storia che può apparire inedita per chi ha diretto, tra gli altri, Gli spietati, Million Dollar Baby, Gran Torino, Flags of Our Fathers, Letters From Iwo Jima, Mystic River: storie di personaggi ghettizzati dalla comunità, da se stessi o dal loro passato, i quali cercano di ritrovare la serenità dopo un tortuoso percorso di redenzione, che talvolta coincide con la morte. Ma questo è lo stesso archetipo di Jersey boys, un ibrido tra una biografia e un musical dove le canzoni non sono uno strumento diegetico ma piuttosto una pausa dalla narrazione, una sorta di rockumentary nella storia che serve soprattutto a risvegliare dei ricordi e farci amare (ancora) quei personaggi. Personaggi che, di volta in volta, raccontano parte della loro versione dei fatti: è vero che, come dice il chitarrista Tommy De Vito, “Ognuno se la ricorda come gli fa più comodo”. Dopo l’ascesa che li ha condotti dai lampioni ai riflettori, infatti, ognuno cova delle remore, dei rancori di cui rende partecipe il pubblico interpellandolo direttamente; ricordi che, affastellandosi l’uno sull’altro, conducono alla necessaria frattura del gruppo e ai disperati tentativi di non perdere definitivamente il legame con la musica.
La meticolosità con cui sono organizzate le parti cantate e ballate; la rappresentazione dei conflitti e delle svolte narrative attraverso i particolari; la molteplicità delle prospettive dalle quali si può interpretare quest’epopea e la grande preparazione e completezza degli attori, importati dallo spettacolo teatrale ma capaci di bucare lo schermo – per la verità sono doppiati, tranne che per le parti canore: tutto questo fa di Jersey Boys un film tecnicamente molto riuscito e coinvolgente, di conseguenza, anche sul piano emotivo. E non solo per l’inevitabile effetto-nostalgia che può generare o per l’empatia che la formula del sogno (americano) che si avvera produce. Ma perché, pure, ci restituisce un saggio di quanto sappia essere eclettico e popolare (ma non triviale) Clint Eastwood.
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Paolo Ottomano
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