"Non ammazzerai mai nessuno. Non tu. Sei troppo maledettamente compiaciuto e soddisfatto e sicuro di te stesso. Ti piace far male alla gente, ma..."
Che l'America avesse fagocitato prima i suoi figli e nipoti nelle spire della post-modernità liquida, non è una sorpresa. Prendetene uno a caso, di figlio, come questo Jim Thompson - uno di quei nomi irresponsabilmente diffusi nell'anglofonia, che ha il suo equivalente de' noantri nel condannare un nostrano fanciullo al classico Mario o Giovanni Rossi, crimini che andrebbero perseguiti con e persino più solerzia della rapina a mano armata, ma questo è un discorso che lasciamo volentieri cadere nel vuoto fra le nostre teste e i nostri pc...Jim Thompson, dicevamo. Sradicato da qualsiasi posto in cui si sia fermato più di cinque minuti. Perso in un mondo che non ha mai sentito come casa sua, eppure malinconicamente a suo agio ovunque, ché, come diceva qualche poeta di sicuro talento, l'uomo è quell'animale che sa adattarsi a qualunque situazione. E Jim è questo quel che ha fatto: adattarsi.Si è adattato al mondo infinito del Texas, ai suoi bifolchi bovini e razzismi vari, ci s'è infilato come una lucertola nel pertugio ed è riuscito nel sottobosco underground della malavita malamente organizzata, dei truffatori, assassini senza talento e mignotte da due soldi. Ed è qui, proprio qui, che alla fine è rimasto una vita intera - idealmente, almeno, ché nella vita vera, reale e fisica, no, lì non c'era proprio posto per Jim.
“Quando le cose vanno veramente male significa che stanno per andare meglio.”
Jim diventa lo psicanalista dei borderline. Quelli veri, quelli cattivi, quelli che puzzano di morte mentre uccidono. Vi penetra come un medico un chirurgo un entomologo. Non solo osservatore, ma vero e proprio interprete della disciplina. Zero coinvolgimento, senza mai cedere alla forma. E Thompson sfiora la ricetta del sopraffino: si toglie utensili e ammennicoli del mondo vero e penetra nell'idealtipo criminale, riporta sulla scena i crismi del nulla che le cronache moribonde dell'urbanità e del malessero civile relegano ai soliti quattro mentecatti, ne desume le esperienze, le rende palpabili e le schiaffa in faccia al pubblico, forte di un solo grande monito che è anche la sintesi di una ispirazione: NESSUNO E' INNOCENTE, mettetevelo bene in testa.E non venite a parlarmi di deformazioni cristiane, cattolico-misticheggianti, retaggi pseudo-culturali, di mondo classico che si riaffaccia. E non per niente, ché di solito ci sguazzo come un porco nel letame dietro a questi discorsi di dietrologie paranoiche. Probabilmente c'è pure questo, c'è pure quell'educazione di un padre e una madre inevitabilmente legati alla mentalità e alla cultura europea e occidentale, pertanto non possiamo dimenticarci di questo macro-discorso.Eppure, secondo me, c'è un po' di più.C'è la visione di un mondo diverso. Di un universo meno impari e più livellato. Meno squartato e più armonizzato. Meno morente e più vitale.C'è l'assillo, che è un desiderio costantemente frustrato, di vivere meglio, a fronte di una realtà che, alla tenera età di diciannove anni (anno domini 1925) gli offre solo un esaurimento nervoso e un biglietto di sola andata per i campi di petrolio della terra bucherellata che s'andava affermando a sud del Sud americano. E la scrittura diventa il suo esorcismo.Mettendo su carta - bianco su nero - le res gestae di questi pseudo-eroi la vita diventa meno dura e più saporita, e senza bisogno di spendere monti di denaro (inesistenti) in liquori inquinati e droghe di plastica.Quello che Thompson vuol dirci è semplice.I suoi testi non ruotano attorno a un signolo, puro atto, il classico momento esplosivo che al classico lettore borghese farebbe storcere la bocca: lui orchestra un'intera architettura di brutture e storture contemporanee e le rende vere. Gli dà una consistenza, un odore, un sapore, una forma e un volto. E poi le nomina. Si fa dio della miseria degli uomini. Dipinge quadri bruschi come se Céline o Dostoeviskij avessero preso cittadinanza e (s)fortuna americana.
"Quell'ultimo, terribile giorno, con me rannicchiato ai piedi delle scale, sconvolto dalla paura e dalla vergogna, terrorizzato, dolorante per la prima e unica frustrata della mia vita; che ascoltavo le voci basse e infuriate, le voci infuriate e sprezzanti, nella biblioteca."
Per Thompson, bruciato dalla visione di un mondo drammaticamente peggiore delle aspettative di un essere umano medio e qualunque, il vivere è uno statico, squallido pezzo di granito destinato all'oltretomba della memoria.Nessuna possibilità di redenzione.Il cancro è andato troppo in fondo.L'unica salvezza è la rinascita.Fare tabula rasa e ripensare tutto.Anzi no, agire.Agire e basta.Un mondo ubriacato di cose e tragicamente privato di emozione.Prendete il protagonista de "L'assassino che è in me": il suo nome non è Lou Ford, è disaffettività, aridità emotiva, o comunque la vogliate chiamare.Lo sfogo pessimistico della scrittura thompsoniana è permesso dallo strumento del nichilismo narrativo, dell'osservazione della miseria e del brutto, ma è un canto che è inevitabilmente (o, almeno, a me piace pensarlo così) generato da un corto-circuito fra ciò che è e ciò che avrebbe voluto che fosse.
“Jim Thompson non conosceva il significato della parola “fermarsi”. Così ha messo in atto tre sfide: vedere tutto quello che era possibile vedere, scriverlo, pubblicarlo.” Se lo dice anche Stephen King...