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JIMMY P. di Arnaud Desplechin stasera in tv (lun. 15 giu. 2015)

Creato il 15 giugno 2015 da Luigilocatelli

Jimmy P. di Arnaud Desplechin. La Effe, ore 21,00.
048130Jimmy P. (Psychoterapy of a plains indian), un film di Arnaud Desplechin. Con Benicio Del Toro, Mathieu Amalric, Gina McKee.
048131Desplechin abbandona i suoi consueti scenari della Francia del Nord e si sposta in America a raccontare di un indiano reduce di guerra oppresso da una misteriosa malattia e dell’antropologo che lo cura. Tratto da un famoso caso clinico, un film ben fatto e benissimo scritto che però non riesce mai a interessarci. È che la storia stavolta latita. Analogie con The Master, ma il risultato è assai inferiore. Voto 5 e mezzo
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Ad Arnaud Desplechin non ha fatto bene questa trasferta tra le praterie americane per girare in inglese un film assai lontano dal mondo che racconta di solito, la Francia del Nord già un po’ fiamminga abitata da famiglie contorte e disfunzionali eppure vitali (mi riferisco a I re e la regina e Racconto di Natale, entrambi meravigliosi). Pare che da tempo meditasse di portare su schermo un testo di antropologia ormai classico, scritto dal francese Georges Devereux su una sua esperienza come psicoterapeuta di un indiano reduce di guerra (della seconda guerra mondiale). Curare la malattia anche tenendo conto della diversità culturale dei nativi americani rispetto all’universo wasp: una narrazione di sicuro affascinante e sulla carta assai promettente, che però Desplechin non è riuscito a tradurre in un film interessante. Film finemente scritto e girato – Desplechin è un ottimo storyteller e dialoghista, e un regista rispettoso e insieme profondo e analitico, non dotato però del dono della sintesi e dell’ellissi – ma inesorabilmente incapace di coinvolgere lo spettatore. Gli ingredienti giusti ci sarebbero, la messinscena è di una qualità che non si può discutere, ma non c’è niente da fare, calma piatta, non si decolla mai. Stranamente sono molte le affinità con The Master di Paul Thomas Anderson, anche se siamo lontani purtroppo da quel risultato. Anche qui c’è un reduce disadattato della WWII, anche qui attraverso una storia di devianza e di non adeguamento alle regole sociali si fa luce su una fase decisiva della cultura americana, quella tra anni Quaranta e Cinquanta che vide l’eplosione massiccia delle scienze cosiddette umane, la psicanalisi freudiana soprattutto, ma anche la psichiatria, la sociologia, l’antropologia.
Jimmy è un indiano (nativo-americano) che, tornato dal fronte europeo, non ce la fa più a riprendere una vita decente, oppresso da incubi e mal di testa che lo lasciano prostrato. All’ospedale di Topeka dov’è ricoverato non san più che fare, fisicamente risulta a posto, qualcuno avanza l’ipotesi di schizofrenia, ma anche questa diagnosi non pare convincere. Si chiama allora Georges Devereux, un antropologo francese di origine ebraico-ungherese ormai basato a New York, perché si faccia carico di quel caso apparentemente insolubile. Quella che segue, e che vediamo, è la terapia cui Deveureux sottopone il suo speciale paziente, qualcosa a metà tra la psicanalisi e l’antropologia, che in questo caso significa attenzione all’universo nativo-americano da cui Jimmy proviene – la lingua, i simboli, i miti – e che Devereux conosce bene per averlo studiata per anni. Il problema è che questo caso clinico non è interessante, non riesce a intressarci mai, non presenta elementi in grado di innescare l’attenzione di chi guarda. Manca la storia, manca un racconto avvincente. Risulta molto datato anche il ricorso del terapeuta a tecniche vetero-freudiane parecchio logorate, come le associazioni libere, o l’interpretazione dei sogni. Cose che il cinema faceva molto bene, e molto credibilmente, negli anni Quaranta e Cinquanta quando appunto in America il sapere psicanalitico esplose, e improntò film memorabili come Io ti salverò di Hitchcock, Lo specchio scuro di Robert Siodmak e Improvvisamente l’estate scorsa di Tennessee Williams/Joseph Mankiewicz. Oggi tutto sembra frusto e polveroso, e poco credibile ahinoi. Jimmy P. parte da buonissime intenzioni e ottime premesse per approdare a qualcosa che delude. Benicio Del Toro (il paziente) e Mathieu Amalric (l’antropologo) sono ovviamente bravi, ma non basta.


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