E per fortuna, aggiungeremmo.
Perché - in totale controtendenza con la teoria tarantiniana - "Jimmy's Hall" non sembra affatto l'opera di un regista vicino agli apici della sua vecchiaia, come nemmeno quella di chi con la testa comincia a perdere pieno legame e quindi capacità di intendere e di volere. Tutt'altro. Loach infatti dimostra per l'ennesima volta di mantenere una lucidità e una giovinezza mentale che gli consentono insieme di non smarrire nemmeno un pezzettino della sua magnifica impronta autoriale e umana, mettendo in piedi una storia asciutta, impeccabile, forse piuttosto netta e sentita, ma che trascina, emoziona e commuove senza alcun bisogno di forzare la mano. Ci riporta nel lontanissimo 1932 - nell'Irlanda post-guerra civile e in piena depressione - per raccontarci lo spaccato di un uomo, Jimmy Graltron, che per spirito e gesta, potrebbe esser tranquillamente etichettabile come una di quelle leggende da idolatrare e venerare in eterno. Se non lui, quantomeno il suo rinomato salone (o centro sociale, se preferite), quello spazio in cui gli abitanti della Contea di Leitrim riescono a riempire i loro vuoti culturali e vitali, riunendosi felicemente per discutere, leggere, studiare, boxare e ballare. Svolgere insomma quelle attività ricreative e benefiche utili alla comunità, ma per niente ben viste dalla Chiesa e dalla borghesia, che giudicano l'eccessiva libertà di pensiero sprigionata in quel luogo come qualcosa di pericoloso e lontanissimo da Dio.
Così, pur avendolo già immaginato e previsto per propensione, l'epilogo di "Jimmy's Hall" non può che essere ugualmente amato e abbracciato come fosse quello spiazzante e meraviglioso che non ti aspetti. La costruzione con cui Loach accende sapientemente la temperatura del suo finale, oltre a restituire a noi brividi e qualche lacrima, dimostra l'esperienza e la voglia di un veterano del cinema che dal cinema non può staccarsi per definizione.Perlomeno non in maniera così netta o derivante dai Mondiali.
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