I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
Tokyo International Film Festival 2007: miglior film nella sezione «Japanese Eye». Berlin International Film Festival 2008: Netpac e Cicae. Presentato in anteprima mondiale al Yufuin Film Festival (26 agosto 2007). Altri festival: London, Los Angeles, Manila, Torino.
Il film racconta l’atmosfera, gli eventi e le motivazioni che dai movimenti studenteschi degli anni Sessanta portano al cosiddetto "incidente del monte Asama". Dal 1960 con il rinnovo dell'ANPO, il Trattato di sicurezza tra Stati Uniti e Giappone, comincia per il paese un periodo di tumulti, proteste e ribellione sociale che si protrarrà fino alla fine del decennio. In questi anni, in cui un sentimento di opposizione verso il governo giapponese ed una società giudicata ormai vecchia riecheggia gli eventi del maggio parigino, gli studenti cominciano ad occupare università ed a raggrupparsi in varie fazioni rivoluzionarie. Il caos non è solo quello delle piazze e delle strade ma anche dei vari gruppi che si formano e disfano nel corso di pochi anni e che vedono parallelamente aumentare il ricorso alla violenza. Questo è, ad esempio, quel che accade alla Sekigun-ha, fra i cui leader c’è anche la giovane e bella Shigenobu Fusako, che dopo il suo proclama di guerra allo stato si scioglie, per unirsi con una fazione maoista e formare, nel luglio del 1971, la Rengō-sekigun (United Red Army). Durante l'inverno i militanti del gruppo si nasconderanno nei dintorni del monte Haruna per estenuanti sessioni di addestramento. L’ossessione rivoluzionaria e di disciplina dei due leader Mori Tsuneo e Nagata Hiroko sfocerà nell’uccisione di sette membri del collettivo, nel conseguente arrivo della polizia e nell'arresto dei due. Cinque militanti riescono però a scappare e a rifugiarsi, con una donna in ostaggio, in una baita ai piedi del monte Asama, nella prefettura di Nagano. Qui resisteranno dal 19 al 28 febbraio, circondati da un vero e proprio "esercito" di polizia, sino a che questo non riuscirà a irrompere nell’edificio e a catturare i cinque fuggitivi.Film di oltre tre ore, e che in origine comprendeva sessanta minuti in più tagliati per motivi di distribuzione, United Red Army è una mescolanza di fiction (predominante) e materiale di repertorio, che prova a raccontare uno dei periodi più difficili, caotici e vitali della recente storia giapponese. Come lo stesso regista ha dichiarato, il film è anche una reazione a The Choice of Hercules di Harada Masato (2002), che descriveva i fatti del monte Asama – il primo evento di cronaca seguito in Giappone con lunghe dirette televisive dall’emittente NHK – dal punto di vista della polizia e dei media. Un approccio, questo, che finiva con l’isolare i fatti dal loro contesto storico. Wakamatsu, invece, sembra far suo l’invito di Fredric Jameson a «storicizzare sempre», come già indica il titolo giapponese del film «Jitsuroku rengō-sekigun: Asama sansō e no michi» che si può rendere, infatti, come «la vera cronaca dell'Armata Rossa Unita: la strada verso il monte Asama». Il film non è quindi una semplice ricostruzione dei fatti ma anche lo sforzo, da parte di Wakamatsu e del suo staff, di porre questi fatti in un contesto sociale, storico e umano più generale. Inoltre, più che mai, United Red Army ci fornisce un punto di vista interno al movimento di protesta, sia sugli eventi del febbraio 1972, sia, più in generale, sul periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Wakamatsu, infatti, ha preso parte ai tumulti dell’epoca, e i suoi film sono stati tra i protagonisti di quegli anni, non solo in quanto specchio del periodo, ma anche come agenti attivi dello stesso movimento di contestazione.
La logica della ricostruzione dall’interno è testimoniata anche dal fatto che Wakamatsu, oltre ai suoi ricordi, si sia avvalso di testimonianze di prima mano, come quelle, non citate, di Shigenobu Fusako, che Wakamatsu continua a visitare anche ora che è in prigione, e di Bandō Kunio, uno dei cinque membri dell'incidente di Asama, con cui ebbe lunghe conversazioni.
Nella prima scena del film siamo già trasportati alla fine degli eventi, quando vediamo il gruppo dei giovani appartenenti all’United Red Army camminare nella neve, inseguiti dalla polizia. Dopo questo brevissimo flash forward, ci spostiamo alla fine degli anni Sessanta col racconto dei movimenti studenteschi e delle rivolte. Attacchi alle stazioni di polizia, scontri violenti, bombe molotov, fazzoletti sul viso e travi di legno in mano, immagini di repertorio di proteste, sfilate, università occupate sono mescolate sapientemente a ricostruzioni di riunioni fra studenti, incontri, discussioni. Il montaggio sostenuto crea un ritmo abbastanza veloce dove le immagini, l’ottima musica di Jim O'Rourke e la voce narrante pastosa e per niente fredda e distaccata dell’attore Harada Yoshio che racconta fatti e date storiche, trasmettono allo spettatore il susseguirsi caotico degli eventi: una progressione che si conclude con la partenza della Shigenobu per il Libano, siamo nel 1971, e che traghetta così l’opera nella sua parte centrale.
Con la formazione della United Red Army comincia la discesa agli inferi, la triste fine dei sogni rivoluzionari e forse la parte più riuscita del lungometraggio. Da uno stile che mescola finzione e filmati d’epoca il film passa ad un racconto cinematografico più lento ed espressivamente più sobrio con un uso dei colori che elimina quasi totalmente dalla sua tavolozza quelli più vivi e sgargianti. Una scelta che oltre a donare un taglio prosaico, crea uno scarto rispetto al movimento ed alla vivacità del periodo precedente.
I due leader della United Red Army, Mori e Nagata, cominciano ad assumere modi dittatoriali, nascono i primi contrasti interni, le violenze fra i membri, le punizioni ed alla fine anche le prime esecuzioni. Si crea un’atmosfera di eccessivo rigore, di asfissia. Rapidamente i luoghi dell’addestramento si ritrovano ad abbondare di spinoziane “passioni tristi”, alimentando il processo di autocannibalismo che porta inesorabilmente alla distruzione del gruppo. Non c’è più spazio per il rilassamento, il divertimento, l’erotismo, insomma siamo anni luce distanti da quella gioia di vivere che caratterizza, pur nell'assoluta serietà dei propositi, i primi movimenti studenteschi di quel periodo, testimoniata, ad esempio, da film come Student Guerilla (Jogakusei no gerira, Adachi Masao, 1969), da molti pink dello stesso Wakamatsu e, in ambito letteratio, da 69 di Murakami Ryū.
In questo delirio di fredda ubbidienza e dove nessuno osa mettere in discussione l’autorità dei due capi, dodici membri del gruppo saranno puniti e uccisi. Terribile la scena in cui una ragazza è costretta a seppellire il corpo nudo della sua amica in piena notte, salmodiando parole di autoaccusa. Wakamatsu è sempre un maestro nel descrivere e creare le scene di violenza, ma qui a differenza dei suoi lavori precedenti, è in gioco un’efferatezza che è anche, se non soprattutto, mentale, ricolma della tristezza e dell’agonia delle occasioni mancate, della giovinezza strozzata sul nascere.
Frasi e affermazioni come «Fai autocritica!», «Comunista» e «Rivoluzione comunista» sono pronunciate, in questa parte del film, fino al parossismo, per giustificare punizioni corporali, in cui visi di giovani ragazze ancora nel fiore degli anni sono brutalmente deturpati, ed esecuzioni sommarie. Sono scene difficili da sopportare, non tanto per la brutalità in sé, il regista giapponese ci ha abituato a ben altro, soprattutto sul finire dei Settanta, ma per il tormento psicologico e l’infinita mestizia che trasmettono. «Dove sono andate la gioia, la ribellione e la rabbia festosa dei movimenti di rivolta?» sembra gridarci la pellicola.
Il simbolo di tutto questo sono il viso e l'atteggiamento di Nagata Hiroko, interpretata ottimamente da Namiki Akie, la cui fede cieca in tutto ciò che gli “ideali” della rivoluzione prescrivono, va a braccetto con la sua pressoché totale assenza di empatia. C’è un abisso fra questo personaggio femminile e quelli portati sul grande schermo da Wakamatsu durante la sua lunga carriera.
Con l’arresto dei due leader e la fuga dei cinque superstiti comincia la parte finale del film; ritornando alla prima scena abbiamo a questo punto percorso «la strada che porta sul monte Asama» del titolo. Dentro la baita-pensione, in questa parte anche per motivi di budget sono spesso mostrati solo gli interni, nei dieci giorni che separano l’arrivo dei cinque dall’irruzione della polizia, assistiamo ad una progressiva quanto sincera riflessione collettiva. I membri sono tutti giovanissimi ragazzi, dai diciannove anni in su, e sono uniti nel constatare che ciò che è mancato loro è stato il coraggio di opporsi alle brutali violenze avvenute nel gruppo. Circondati da un enorme numero di poliziotti, i cinque si difendono, sparano e ne uccidono due. Wakamatsu è qui abbastanza impietoso nel descrivere come l’odiata polizia (che nel film si vede appena) sfrutti biecamente i sentimenti familiari – le madri di due dei rivoluzionari che parlano col megafono – al solo scopo di stanare i ragazzi. Quando il 28 febbraio le forze dell’ordine assaltano la baita e arrestano i ribelli, siamo in dirittura d'arrivo. Il film si conclude con immagini di repertorio e la lista dei fatti che sono avvenuti dopo il febbraio 1972, con tanto di esplosione dell’aereo delle Japan Air Lines del 1973, in Libia, fino all'arresto della Shigenobu, nel 2000, e il conseguente e definitivo scioglimento della sua organizzazione armata.
Capace di sorprendere a più di settant’anni, Wakamatsu ci regala con questo film, forse, una delle sue opere più personali ma capace anche di rendere, lungo tre spietate e lucide ore, il respiro storico della sua generazione. United Red Army è una critica feroce contro tutto e tutti: la polizia, i governi, la situazione d’oblio attuale ma, soprattutto, un lucidissimo esame di come un movimento di protesta e di genuina rivolta possa trasformarsi in un massacro ed in una occasione perduta. [Matteo Boscarol]