John Barth

Creato il 08 novembre 2011 da Ghostwriter

“Nel profondo sono rimasto un arrangiatore, il cui maggior piacere in campo letterario è quello di prendere una melodia preesistente- un antico poema narrativo, un mito classico, una logora convenzione, un frammento della mia esperienza- e, improvvisando come un jazzista all'interno dei suoi limiti, arrangiarla in vista del mio scopo attuale”. Così si presenta John Barth in un libro mai tradotto in italiano, non ancora almeno, che raccoglie i suoi saggi letterari, The Friday Book (Putnam, 1984). E' il ritratto di un brillante professore di letteratura o di un musicista mancato? Forse entrambe le cose, visto che Barth possiede senz'altro il dono del ritmo, anche se non si tratta proprio di un valzer. Non va tutto liscio nei suoi racconti, per esempio, tanto meno nei romanzi dove può capitare di avere la sensazione che manchi qualcosa, diciamo due o tre accordi che ne avrebbero fatto una storia o una melodia “normale”, di quelle analizzate nei manuali di scrittura creativa che Barth conosce molto bene e di cui si fa beffe volentieri. In effetti, Barth è uno scrittore che non nasconde i virtuosismi e, qualche volta, può irritare ma le sue storie hanno sempre qualcosa di vitale, persino di intossicante, direi.

Per fortuna abbiamo una traduzione di buona fattura dei suoi racconti, raccolti in una silloge che rimarrà negli annali dell'editoria, credo, anche per il fatto che pesca in ben tre o quattro raccolte diverse pubblicate in patria da Barth. I suoi romanzi sono apparsi da noi fin dagli anni Settanta, e di recente è stato tradotto di nuovo La fine della strada, probabilmente uno dei più riusciti o, in ogni caso, dei più leggibili (molti considerano pero' il suo capolavoro L'opera galleggiante, di recente tradotto per Minimum Fax).

 

Meno fortunato di altri scrittori a lui vicini, come Pynchon e Foster Wallace, Barth dissemina i suoi racconti di una serie di trovate insolite e vagamente maniacali la cui origine si perde, come lui stesso ammette nella prefazione all'edizione italiana, nel fervore ambiguo degli anni Sessanta. Un libro molto particolare, scritto proprio in quegli anni, s'intitolava Lost in the Funhouse. Fiction for Print, Tape, Live Voice ed è un buon esempio delle idee di Barth in fatto di libri e di comunicazione: doveva uscire con un'audiocassetta allegata, come se fosse la registrazione di un reading o di un happening...Era il '68, naturalmente, e si potrebbe pensare ad una blanda imitazione in prosa di Ginsberg (anche considerando l'abolizione della punteggiatura). Ma il libro contiene più che altro appunti di teoria letteraria dissimulati da oscuri personaggi che vanno in estasi per Barthes e Genette – quella che i critici chiamano metafiction e che, di solito, non interessa nessuno tranne i critici- e astruse vicende di case stregate e di ragazzini nevrotici, come il mitico Ambrose.

In La vita è un'altra storia (notare il titolo circolare, un omaggio all'amato Borges oltre che a Calvino) è contenuto un racconto che mi sembra esemplare dello stile di scrittura, funambolico e ipercolto, di Barth. D'ora in poi e per sempre comincia con alcuni riflessioni del tutto sane e pacifiche su che cosa sia la felicità, il matrimonio e la vita coniugale dei coniugi Pollard, due insegnanti in pensione dediti, tra le altre cose, alla contemplazione delle stelle sul terrazzo della loro casa di campagna (per uno strano effetto del fato geografico, tutti i racconti di Barth sono ambientati nel Maryland, giusto per non sbagliare strada).

Partendo da un tono iniziale abbastanza elegiaco e tranquillo, Barth riesce a innescare un meccanismo narrativo basato in modo elegante e capillare sull'astronomia, le malattie per contagio e la mitologia greca per arrivare niente meno che ad un emblematico “orlo del calzino nero” di uno stupratore nascosto tra gli alberi e pronto ad aggredire la vicina di casa dei Pollard. Questa svolta narrativa a metà del racconto è un po' come subire un incidente di cui non si conosce l'origine: una violazione in piena regola di tutte le idee sulle “aspettative del lettore”, in stile David Lynch, così che si finisce col sentirsi come i personaggi di un altro racconto che s'intitola, guarda caso, Perso nella casa stregata. Letto in filigrana, si lascia incrociare con Salinger, Cheever, persino Steinbeck, ma non sarebbe troppo insensato sceglierlo per un plot dei Simpson: in fondo, nel mondo del terribile Bart...Barthes esiste già in un famoso episodio sui filosofi europei.

Barth è quello che si chiama uno scrittore “postmoderno”. Contrariamente a quanto si pensa oggi, la letteratura postmoderna è spesso “realista” nella misura in cui- Barth lo dimostra in tutta la sua opera- sceglie di accettare la complessità e non si tira indietro di fronte all'irrazionale, alle incongruenze e alle assurdità che, in un modo o nell'altro, governano la nostra vita. Ai vigliacchi, come sempre, rimangono le illusioni del realismo accuratamente confezionato per sembrare tale.

Pubblicato da Remy71 


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