John Osborne: l’Amore Arrabbiato a Spasso tra le Generazioni

Creato il 13 febbraio 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Manuela Marascio

Quando fu rappresentata per la prima volta al Royal Court Theatre di Londra nel lontano 1956, Ricorda con rabbia (titolo originale Look Back in Anger) investì la società inglese con forza dirompente: era la denuncia finalmente urlata, non più repressa, di un vero e proprio disagio esistenziale. I “giovani arrabbiati” di John Osborne apparivano come emblemi di una società matrigna, sadica aguzzina che si diverte a infierire sulla passività disillusa di una generazione votata al sacrificio. Oggi la frustrazione di quel manipolo di gioventù bruciata sembra nuovamente prendere fiato per buttare fuori dai polmoni la sua violenta requisitoria contro tutto e tutti. Lo sa bene Luciano Melchionna, regista dell’ultima versione dell’opera realizzata dal Teatro Stabile di Napoli: «A suo tempo la pièce venne definita come il manifesto di una generazione: oggi potremmo dire che ha preannunciato i nostri tempi ed è ancora il manifesto di chi si scontra con una società indifferente, dove ormai tutto e il contrario di tutto hanno la stessa valenza e non si riesce a smentirli». La penna di Osborne a suo tempo partorì un quadrato di tensioni emotive degne delle più sofisticate “affinità elettive” di Goethe: Jimmy, l’arrabbiato per eccellenza, che per non implodere scarica su chi lo circonda un nervosismo autodistruttivo, un’insofferenza dolorosa e irrisolvibile; Alison, sua moglie, docile rinunciataria che ingoia continuamente bocconi amari senza smettere di amare; Cliff, l’amico paciere, indispensabile cuscinetto ammortizzante tra i due; infine, Helena, che rompe gli equilibri già precari con tutta la sua ingombrante e sfacciata passionalità. Un dramma domestico che si presenta come la conseguenza underground di una tragedia universale, fatta di conflitti mondiali e alienanti scontri di classe. La scenografia dello spettacolo di Melchionna è parlante: la soffitta di un negozio di elettrodomestici adibita a consumato nido d’amore, con due poltrone malconce in cui affondare la noia e la disperazione, un’asse da stiro che diventa simbolo della femminile occupazione domenicale, una mobilia pallida e anonima da cui fuoriescono alla rinfusa alcolici e stoviglie, un soppalco-rifugio in cui nascondersi senza smettere di osservare la scena sottostante. Degrado, miseria, squallore. Daniele Russo è abilissimo nel giocare con il proprio physique du rôle: animalesco, sgraziato, violento urlatore di periferia che si muove irrequieto come una bestia in gabbia, alternando il furore irruento a pause riflessive sull’inafferrabile senso di un’esistenza fragile.

Nettissimo ed efficace il contrasto con quella moglie che, pur apparendo distante da lui, ne è l’indissolubile completamento, incarnando il modello di una femminilità un tempo rigogliosa e ora condannata all’annullamento, priva di slanci vitali ma ancora desiderosa di affetto e comprensione: Stefania Rocca ha un inizio lento, nella più totale apatia, anche lei consapevole o meno valorizzatrice di una fisicità gracile e impossibilitata a reggere gli urti. Esploderà sul finale, vomitando tutto il suo autentico e straziante dolore di madre non realizzata in un monologo carico di pàthos che stringe in una morsa lo stomaco dello spettatore più sensibile. Marco Mario De Notaris è il tenero amico-soccorritore, presenza rassicurante e gioviale contrappeso dell’odioso Jimmy, inspiegabilmente legato a quell’infelice rapporto coniugale da un anomalo vincolo di dipendenza; tutto in lui emana la placida accettazione di una condizione che forse potrebbe essere cambiata, ma che, per deliberata scelta di vita, egli cerca sempre di mantenere stabile, come se la ricerca della giusta misura in mezzo alle tempeste fosse una missione da compiere, una promessa da mantenere, anche se non in eterno. Spavalda amazzone senza peli sulla lingua, unica persona in grado di tenere testa a Jimmy, Angela De Matteo irrompe sulla scena con falcata vigorosa e marcata sensualità. Per un ironico meccanismo di sostituzione, si ritroverà a ricoprire il ruolo di Alison compiendo gli stessi suoi gesti, reinterpretandoli in chiave più aggressiva e disinibita. Il finale è il tanto sospirato scioglimento di ogni tensione, attraverso effusioni ristoratrici che preludono a un futuro migliore, o almeno alla speranza di esso. Un ritorno a una primigenia e quasi infantile felicità amorosa, indispensabile per guardare avanti. Una prova attoriale non facile, ma da cui tutti e quattro ricavano una sentita interpretazione, convincente e d’impatto come deve essere qualsiasi denuncia. Del resto, quale giovane, tra i venti e i trent’anni, non riuscirebbe a immedesimarsi in una così ben delineata insofferenza, all’interno di un mondo in cui tutto sembra già stato scritto da altri, e niente sembra più disposto a essere rivoluzionato? E se lo scriveva Osborne nel 1956, quando molto doveva ancora capitare – e lo perdoniamo per la sua scarsa lungimiranza – possiamo ben ribadirlo noi oggi – soprattutto, noi oggi. Così commenta Melchionna: «L’ansia per una società più giusta si riaffaccia violentemente in quest’epoca così sciatta nel sentire, così incapace di empatia, così prossima al collasso». Sarà l’amore, il coraggio ritrovato in un abbraccio, a risollevare le sorti di una generazione costretta a rinchiudersi in soffitta perché con difficoltà riesce a scendere in strada?

Per le immagini si ringrazia il Teatro Stabile di Torino – Fotografie di Tommaso Le Pera

Ricorda con rabbia

di John Osborne

Regia: Luciano Melchionna

Scene: Francesco Ghisu – Costumi: Michela Marino – Consulenza musicale: Giovanni Block

con Stefania Rocca, Daniele Russo, Angela De Matteo, Marco Mario De Notaris

Produzione: Fondazione Bellini – Teatro Stabile di Napoli

Moncalieri (TO), Fonderie Limone, dal 5 al 10 febbraio 2013


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