Cos'altro dire del grande Johnny Cash, l'uomo che ha cantato l'America, l'America intera, dalle piantagioni di cotone alle pianure solcate dai treni, dai bar fumosi ai penitenziari?
Anche in Italia è arrivata la sua autobiografia, pubblicata da Dalai editore Non l'ho ancora letta, ma ne sono sicuro, non sono pagine buone solo per i patiti del rock 'n roll stelle e strisce. C'è una grande storia lì dentro, una storia cominciata nell'Arkansas degli anni Trenta, la grande depressione e i campi calpestati a piedi scalzi, roba esattamente come in Furore di Steinbeck.
Le prime canzoni scritte da militare, il succcesso perfino troppo facile e poi una singola smania di insuccesso.
I vagabondaggi da un capo all'altro del continente, notti insonni nel deserto, qualche accordo per farsi compagnia, l'acqua di cactus per sopravvivere. I concerti in carceri come Folsom e San Quintino. Le tossicodipendenze, al plurale.
Il figlio di braccianti che diventa il man in black, l'uomo in nero che di sè dice:
Mi vesto in nero per i poveri e gli sconfitti, che vivono senza speranza, affamati ai margini della città.
E lui che vive ai margini del sogno americano. Ai margini e fuori dal tempo, dove tutto corre veloce, dove tutto è business.
Passano gli anni, sembra quasi dimenticata quella sua canzone insieme a Bob Dylan, contenuta in Nashville skyline, anno di grazia 1969.
Tutto cambia, tutto scivola via, come uno di quei treni nella notte americana. La sua musica appartiene davvero a un altro mondo? Chissà.
Johnny Cash nel frattempo è un mito, un mito involontario, forse anche un po' inconsapevole. Perfino chi si assorda con la musica rap gli si inchina.
Johnny Cash è tornato dal deserto. E la sua è come la voce del profeta. Dell'uomo che ha attraversato il deserto per indicarci qualcosa che è davanti a noi, solo che non ce ne siamo accorti.