Amaro è il luppolo, i versi di Jolanda Insana per l'Olio della poesia
domenica 24 luglio 2011
Amaro è il luppolo è un terremoto. Una lunga notte vissuta a tremare sotto il peso delle parole. Un orgasmo che centuplica l'ardersi dei tormenti e distrugge le agiatezze di pensiero che navigano placide sui passi della spensieratezza. Amaro è il luppolo è uno sguardo. Un agire poietico che mitiga la propria vista e si contorce nel raccontare il quotidiano, dal quale, magari, fuggirebbe scalciando via ciò che di male c'è attorno. Per farlo poi riemergere come assunta memoria e parola foglia di giglio tremante d'aurora. Amaro è il luppolo è uno spaccato poetico che scende negli abissi di Jolanda Insana per emergerne come mirabile racconto, in versi, di una realtà diroccata piegata sugli spezzoni di una voragine, di una vita che non si può più vivere, spezzata rovinata, lacerante dilaniata mentre il mondo fuori crolla e uccide il futuro arroccandolo su quei pilastri di «sabbia impastata nelle fondamenta» (Jolanda Insana, Amaro è il luppolo, Manni, Manduria, 2011) ed il racconto di una bambina dagli occhi chiari ed il sonno ed il mare la sabbia il cappellino in testa, il mondo addosso delle speculazioni edilizie, il mondo addosso delle speculazioni esistenziali da economisti dell'ultima ora. Ma è un mondo poetico che si cuce a fatica e si rimargina mai sulla «febbre che smangia [...] che ci orienta e fa padroni delle contorsioni» (ivi). Amaro è il luppolo è un vibrato delirio di parole, che si legge da ossessi assonnati durante lo spazio che la notte raccoglie in gola e destina alle parole, al loro sedimentarsi nella dimensione corporea, alla stratificazione delle visioni che lancia al lettore, degli istanti che contornano la vita di tutti e si celano agli sguardi, travestiti da parole. È una richiesta d'aiuto, un grido gettato affidato al caso di una bottiglia in mare. Una mezza porzione di speranza, ché l'altra mezza è affossata dai delitti e detriti di una classe dirigente che ammorba l'equilibrio ed uccide il futuro. Io Repubblica (una delle poesie contenute nel quaderno stampato da Manni) è questo, un lacerante grido di silenzio mentre crolla lo stato di salute del Paese in cui viviamo che dice «dopo le rapine/non voglio essere sfregiata/voglio essere curata/io Repubblica malata» (ivi). È una poesia, una poetica, questo quaderno di Jolanda Insana, che si affaccia al futuro e trema di parole e sguardi e soffoca d'apprensione, per una e più occasioni mancate dal genere umano, per una e mille e altre ancora occasioni mancate, mentre il pianeta muore e contorce sotto gli strappi ipocriti di chi vuol solo incassare denaro e maltrattare noi il mondo i nostri futuri. Ha l'incedere claustrofobico, questo quaderno, dell'assenza di speranze, di chi uccide il lieto fine ed apre gli occhi, ed ha la consapevolezza di guardare avanti pensando a come ricominciare, a come porre rimedio se non è già troppo tardi che «ce la siamo fumata (la terra) e il debito ecologico ci soffocherà» (ivi).
Francesco Aprile
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