Sia chiaro, “La casa del sonno” è un libro elegante e scorrevole ma che non riesce mai a sorprendere del tutto. I personaggi sono maschere troppo schematiche, le cui azioni sono facili da prevedere. Non c’è vita in loro, ridotti come sono a rappresentare una dichiarazione di intenti: le discussioni cinematografiche di Terry, ad esempio, sono pedanti e troppo artificiose per destare empatia; la svolta conformistica della lesbica femminista Veronica, oltre che lasciar intravedere – a mio avviso – un certo sessismo raffazzonato, denuncia banalmente la frustrazione di aspettative che la vita ti costringe ad abbassare. Anche la lieve vena comica che percorre sporadicamente il libro lo fa oscillare nell’indefinitezza di uno stile mai deciso, che si rifugia nell’ironia per evitare il rischio della noia. Rischio che a volte però si tramuta in sbadiglio proprio là dove dovrebbe invece brillare: mi riferisco all’episodio della lettura della poesia del bambino in classe, che in una decina di pagine provoca al massimo una stirata di labbra più che una vera risata. L’unico episodio degno di nota è la simpatica trovata dell’articolo di giornale con le note sbagliate, scritta con intelligenza. Questo episodio non basta però a salvare il libro dal fastidioso sapore del “già visto”: viene da pensare che se Jonathan Coe è il miglior esponente dell’odierna generazione di scrittori inglesi lo stato della letteratura britannica è messo proprio male. Nell’elegiaca quarta di copertina dell’Universale Economica Feltrinelli la vicenda viene presentata (a sproposito) come “un castello dei destini incrociati”, con un’iperbole esagerata che vorrebbe ammiccare a Italo Calvino. In realtà i destini dei personaggi sono irrisolti e trattati con poca partecipazione, ridotti a meri pretesti per esporre idee dell’Autore di cui non si sentiva la necessità. E quando invece Coe vorrebbe lasciarsi andare all’emozione, lo fa con così mestiere che il tutto si riduce a un sentimentalismo smaccato, liftato, plastificato da telenovela, come nell’episodio della protagonista Sarah che apprende dalla mamma di Alison della vita e della morte della sua ex-ragazza. Probabilmente il grande successo del precedente romanzo “La famiglia Winshaw”, ha reso troppo consapevole del suo talento Coe tanto da fargli assumere in questo libro il ruolo del narratore distante che racconta tante storie con la pretesa di raccontarne Una, quella dell’Inghilterra, della Thatcher prima e di Blair poi. Ma preso com’è dal tentativo di cogliere lo Zeitgeist (concetto che non a caso egli cita più volte nel libro) di due epoche differenti, Coe manca clamorosamente l’idea più feconda della storia: il tentativo del direttore della clinica di riuscire a sconfiggere l’umano bisogno di dormire, perché nel sonno, anche l’uomo più forte diventa inerme, trattandosi solo di tempo perso che si potrebbe usare in maniera più proficua. Un errore che si può spiegare parzialmente con la volontà di far rientrare il direttore Gregory Dudden nell’anacronistica e trita figura dello scienziato folle, arrogante, antipatico. Qui infatti Coe dà il peggio di sé elevandosi moralmente sulla propria creatura, non concedendogli nessuna attenuante e scrivendo più per partito preso che per vero interesse verso il personaggio. E così ne “La casa del sonno” i protagonisti soffrono sì di narcolessia e insonnia, ma il sonno è solo il fragile legame che unisce diversi destini, non approfondito nemmeno là dove il tema desta curiosità. In definitiva un libro scialbo, poco coraggioso che ancora una volta rende incomprensibili i furori encomiastici di tanta critica adorante.
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