Joshua Oppenheimer: The Act Of Killing
Creato il 26 dicembre 2013 da I Cineuforici
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JOSHUA OPPENHEIMERThe Act of Killing(Danimarca/UK 2012, 122 min., col., documentario)
TRAMA. Negli anni successivi al colpo di stato militare in Indonesia, nel 1965, i paramilitari della Gioventù Pancasila che appoggiavano il regime, aiutati da sadici criminali uccisero più di un milione di presunti comunisti. (cinematografo.it)
"I have not seen a film as powerful, surreal, and frightening in at least a decade...unprecedented in the history of cinema."
(Werner Herzog)
Subito dopo Holy Motors, il film dell'anno (sebbene sia stato distribuito in ottobre, chissà dove e chissà come, un anno dopo la sua uscita) è The Act of Killing. Se il primo è eccezionale punto fermo (e chissà, forse giro di boa?) del cinema "di finzione", il secondo si pone come caposaldo non meno rivoluzionario, ma nell'ambito del cinema documentaristico. The Act of Killing è un documentario irregolare, anomalo, eppure lucidissimo. Con The Act of Killing il regista americano Joshua Oppenheimer, basato in Danimarca ma vissuto per cinque anni in Indonesia, porta alle estreme conseguenze la sua idea di rilettura del genere sviscerandolo con la lente deformante della finzione.
"God hates communists. That's why he made this film so beautiful."
The Act of Killing, se fosse un'opera di finzione e non un documentario, apparterrebbe al filone dell'"incubo politico", o "fantapolitico"; si intende un genere in cui viene decantato un presente alternativo in cui gli avvenimenti reali non si sono verificati, o hanno preso una piega diversa dalla Storia. Per esempio, un film in cui i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale, nel quale, mettiamo, sono intervistati vecchi ufficiali delle SS che ricordano i bei vecchi tempi andati, quando, giovani e pieni di energie, ancora sterminavano intrepidamente migliaia di ebrei, sottolineando poi come la società sia migliorata grazie alle loro gesta. The Act of Killing è la stessa cosa. Con due notevoli differenze: la prima è che qui siamo in Indonesia; la seconda, ben più importante: che è un documentario. E' tutto vero. Qui gli sterminatori hanno vinto. E dettano legge, ammirati come eroi. Una delle distinzioni che rendono The Act of Killing così innovativo è che fa rivivere le atrocità del passato con la piena e orgogliosa collaborazione dei perpetratori dello sterminio. Questi assassini, paramilitari o "gangsters" (nel senso di "uomini liberi", ma comunque sempre di dementi psicotici si tratta) non solo non hanno mai pagato per i loro crimini, ma sono addirittura invitati alle trasmissioni televisive, durante le quali discorrono della propria eroica mitologia, per narcisismo o per fini più pratici, come fare propaganda per le proprie campagne elettorali.
"Why 2.5 millions victims' children don't take revenge on their killers?""Because we'll crush them all!"(Applausi del pubblico)
Questo è già incredibile, ma c'è di più: come raccontano il loro passato gli sterminatori? Con interviste? No, meglio: girando un film che vuole celebrare le loro gesta, come regalo alle generazioni future, in cui gli assassini recitano la parte di sè stessi, e occasionalmente pure delle vittime. Da chi è diretto il film? Dallo stesso Oppenheimer. In pratica, i massacratori mettono in scena i loro stessi massacri. The Act of Killing non è un documentario sugli omicidi di massa del '65-'66, ma un documentario sugli effetti psicologici di quegli omicidi su un'intera nazione. Quale ispirazione prendere, quale stile adottare per mettere in scena gli eccidi? Oppenheimer lascia pieno potere ai suoi protagonisti. Ed essi si ispirano, a loro volta, agli unici personaggi del cinema che conoscono: Marlon Brando, John Wayne, Al Pacino. Si atteggiano come i loro idoli. Fanno le loro mosse, dicono le battute dei film americani. Il risultato di questa scelta operata dal regista è superba: ne esce un mix di western, noir, guerra, tutto, ovviamente, all'insegna del trash. Più o meno inconsapevolmente, Oppenheimer ha con questo film posto una riflessione, oltre che (già pregnante) sulla realtà distopica di un paese governato da ex-assassini, sul ruolo della violenza nel cinema. La passione del protagonista (Anwar Congo, un leader degli sterminatori) è proprio il cinema. In una scena straordinaria, ammette di essere cresciuto con i film d'azione americani, e che una delle ragioni che lo aveva spinto a compiere massacri era che i comunisti volevano bandire i film americani. Dopo aver mostrato i luoghi in cui strangolava le sue vittime, accompagna il regista al cinema dove strappava i biglietti di film con Elvis. Racconta che la sera dopo aver visto film con Elvis, si sentiva un drago e si rimetteva a uccidere per tutta la notte. La riflessione sta qui: i film con Elvis non sono violenti, ma sono film di evasione; e l'omicida usa la storia di evasione per evadere dalla propria vita.
"There's probably many ghosts here, because many people were killed here."
Non vi basta? C'è ancora di più: questo film è un baratro di significato. Al di là dell'evidente sottofondo di scherno presente nell'idea di Oppenheimer (che ha passato 5 anni a raccogliere materiale e a studiare questi personaggi), l'ambiguità di fondo, sorretta da un inspiegabile assenza di accusa da parte dell'autore (perchè occorre perpetuare l'incantesimo), è sciolta nel momento in cui l'omicida assiste sullo schermo alle sue gesta, compiute nella finzione contro di sè, e assistiamo (noi) a un principio di ripensamento. Vero o falso? Non lo sappiamo, ma il cinema ha compiuto il miracolo. Qui veniamo al significato "spettrale" di The Act of Killing. Oppenheimer non si accontenta di tormentare l'assassino facendogli interpretare i suoi omicidi. Rincara la dose costringendolo a fare i conti con il loro rimorso attraverso addirittura il sogno, il rimorso, quando mette in scena un incubo confessato da Anwar (il fantasma di una vittima da lui decapitata lo perseguita). Tutto The Act of Killing è infestato da spettri del passato. Spettri che riaffiorano quando l'assassino capisce che il film non è un antidoto ai suoi peccati, un antidolorifico, un autoassoluzione. Anwar spera che facendo un bel film storico per famiglie può sentirsi a posto con sè stesso. Ma Oppenheimer gli ha preparato la trappola. Non è un film come quelli di Elvis, un film con il quale evadere, dimenticare l'atto di aver ucciso (da qui il titolo); la trappola è scattata: l'assassino scopre di aver interpretato il film in cui è condannato a rivivere il suo stesso inferno di rimorso. In questo senso il film non è uno psicodramma, e nemmeno un'opera di redenzione, ma un processo sofisticato di realizzazione: realizzare cioè che non ci si può scrollare di dosso l'orrore che si è fatto agli altri e a sè stessi.
"It is forbidden to kill. Therefore, all murderers are punished unless they kill in large numbers, and to the sound of trumpet" (Voltaire)
La padronanza perfetta, l'intelligenza con cui Oppenheimer disvela la coscienza dell'assassino, si rivela nell'utilizzo del paradosso come mezzo di esposizione, e la discettazione nell'assurdo come critica dell'orrore di una nazione che ha preso la piega sbagliata nella Storia. Dal lato pratico, struttura la sua opera seguendo due traiettorie, che sono anche due generi d'uomo: quella di Anwar, uomo ai margini della società, reso pazzo dai propri omicidi, "emotivo" per così dire, capace forse di un barlume di pentimento, su cui si è già abbondantemente discusso; e quella non meno interessante di Adi, a capo del plotone di esecuzione nella Pancasila Youth; questa traiettoria è quella del calcolo; della "razionalità"; della strage di Stato; del "un omicidio è una tragedia, un milione di omicidi è una statistica". Per Adi non esistono crimini di guerra assoluti, in quanto i crimini di guerra vengono stabiliti solo dai vincitori: e i vincitori in Indonesia sono loro, quindi sono assolti. La figura di Adi, meno "appariscente" di Anwar, è quella che ti perseguita dopo aver visto il film, perchè assomiglia a noi: padre di famiglia, persona tranquilla e rilassata. Su di lui, neppure il cinema ha avuto effetto. Alla fine del film, Anwar è distrutto, mentre Adi passeggia soddisfatto con la famiglia in un centro commerciale.
In questa pellicola, anche la normalità è disturbante.
The Act of Killing è cinema come purgatorio.Pietra miliare.
Stefano Uboldi
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