Joyce Lussu
- Traducendo Hikmet, non sentivo affatto il bisogno di mettermi a studiare la lingua turca, la letteratura turca, la storia turca e quella ottomana e arabo-persiana, e di sedermi a tavolino, tra una grammatica e un dizionario, a fare opera di filologia. Sarebbe stato un passo indietro sul complesso colloquio che mi consentiva di partecipare al meccanismo di una costruzione poetica, all’intrecciarsi dei motivi concreti: perché quella parola, perché quella immagine, perché quel concetto, perché quell’atteggiamento mentale o emotivo. La traduzione mi costava così poco sforzo, che ne fui preoccupata, e mi sottoposi all’esame di filologi e di persone di cultura che conoscevano egualmente bene il turco e l’italiano. Mi rassicurarono sulla fedeltà del mio testo, e andai avanti tranquillamente, nonostante le osservazioni che mi venivano da ogni parte. “Traduci Hikmet? Allora conosci il turco”. “Non so una parola di turco”. “Ma allora come puoi pensare di tradurre…” ecc. ecc.-
Questo, raccontato dalla sua stessa voce, è solo un volto di Joyce Lussu e del suo coraggio, mentre racconta la sua determinata volontà, sfida e slancio, curiosità, infinita pazienza nel decifrare versi a lei sconosciuti perché scritti in una lingua affascinante ma misteriosa. Tradurre il grande Poeta Hikmet, si rivela essere per lei, nella sua totale mancanza di conoscenza della lingua turca, un’avventura emotiva ad ampio spettro e non solo esercizio di lingua e grammatica. Da qui, il merito di averci portato per prima i testi di Hikmet in traduzione italiana, facendoli conoscere all’ampio pubblico. Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, coniugata Belluigi e poi Lussu, più nota con lo pseudonimo di Joyce Lussu (Firenze, 8 maggio 1912 – Roma, 4 novembre 1998) è stata una scrittrice, traduttrice, poetessa italiana, medaglia d’argento al valor militare, capitano nelle brigate Giustizia e Libertà, sorella di Max Salvadori e seconda moglie del politico e scrittore Emilio Lussu. Ma Joyce era molto più di una donna, molto più di una scrittrice e traduttrice finissima. La sua vita, sempre caratterizzata da una fortissima porzione di coraggio, attraversò gli anni del nazismo collezionando eventi degni di un romanzo, senza mai lasciar spazio all’indifferenza e alla paura, viaggiando in tutta Europa, dalla Francia alla Spagna, Portogallo, Svizzera, Inghilterra, teatro di rischiose missioni e passaggi oltre confine, falsificazioni di documenti, corsi di guerriglia durante l’occupazione nazista. Ambasciatrice di pace, giovanissima studiosa di filosofia ad Heidelberg con Karl Jaspers, Promotrice dell’Unione Donne Italiane, militò per qualche tempo nel PSI e nel 1948 fece parte della direzione nazionale del partito, preferendo poi tuttavia tornare ad occuparsi di attività culturali e politiche autonome, insofferente a vincoli e condizionamenti d’apparato. Laureata in Lettere alla Sorbona di Parigi e in Filologia a Lisbona, viaggiò dunque molto nel corso della vita, coronando così il destino della formazione cosmopolita ereditata dalla sua famiglia d’origine. Tradusse molti poeti viventi, spesso provenienti dalla cultura orale: albanesi, curdi, vietnamiti, dell’Angola, del Mozambico, afroamericani, eschimesi, aborigeni australiani, racchiudendo in ogni traduzione la meravigliosa avventura umana e letteraria in cui la comunicazione derivò non dalla conoscenza filologica di grammatiche e sintassi, quasi sempre inesistenti, ma dal rapporto diretto poeta con poeta, dalle lingue di mediazione, dai gesti, dai suoni, dal dolore cupo di sofferenze antiche ed ingiuste. La sua traduzione delle poesie del turco Nazim Hikmet (Salonicco, 20 novembre 1902–Mosca, 3 giugno 1963), a tutt’oggi tra le più lette in Italia, è un esempio eccellente per tutte (“Hikmet è un poeta molto traducibile. Forse tutti i poeti sono molto traducibili, se si conoscono profondamente”). Lo incontra a Stoccolma al Congresso internazionale per la pace, quando le viene presentato nella pronuncia turca europeizzata in Naasm Hhikhmet con una “a” lunghissima e molte aspirazioni. Ne è affascinata. Nasce tra loro una grande amicizia che permetterà la conoscenza del poeta turco in Italia tramite, in particolare, gli ormai famosissimi versi d’amore come quelli de Il più bello dei mari (Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto). Joyce Lussu tradurrà oltre 7000 versi di questo poeta turco, perseguitato dal governo filo hitleriano, che starà ben 17 anni in carcere. A lei si deve la raccolta italiana, Paesaggi umani.
- In realtà, non ho mai studiato il turco perché non ho mai avuto intenzione di diventare un’esperta di poesia turca. Mi interessava Hikmet, col quale mi intendevo benissimo senza parlare la sua lingua, come m’interessano altri poeti in varie parti del mondo, indipendentemente dalla filologia e dalla storia della letteratura del loro Paese –
Joyce Lussu e Nazim Hikmet
Di Hikmet, rammenta la sorprendente capacità comunicativa, la bella presenza fisica dall’aria fra il rustico e il principesco. Nel loro incontro a Stoccolma, avvenuto per puro caso e poi fortemente voluto da Joyce stessa, da subito ebbero un rapporto di coinvolgimento emotivo totale. Hikmet, che non parlava bene nessun’altra lingua al di fuori del turco ma comunicava in un francese personalissimo che sembrava ignorare grammatica e sintassi, raccontava e spiegava storie e concetti che arrivavano sempre al punto cruciale in modo chiaro e inequivocabile. Quando non riusciva ad esprimere al meglio qualcosa che voleva dire allora iniziava a gesticolare con le sue belle mani eleganti, o ad utilizzare parole appartenenti ad altri idiomi, fino a che ritrovava la giusta via di comunicazione e Joyce poteva così comprenderlo a fondo. La sua filosofia era quella di adoperare sempre parole semplici, concrete, prese dal quotidiano che anche un analfabeta avrebbe potuto comprendere. Dopo la prima conversazione con lui, “amabile e curioso” lo definì lei, in cui egli le spiegò che viveva a Mosca e aveva un figlio di nove anni mai conosciuto perché trattenuto in ostaggio insieme alla madre dal governo fascista del suo Paese, Joyce si documentò su di lui e sulla sua attività di rivoluzionario e letteraria leggendo diverse traduzioni di sue poesie e commedie in lingue accessibili. E le venne un gran desiderio di tradurlo. Gli disse dunque che amava le sue poesie. In tutta risposta Hikmet esordì con un: “Se ti piacciono, perché non le traduci in italiano? “. Iniziò così l’avventura. Nel salone dell’albergo, Hikmet estrasse dalla tasca un foglio sgualcito e prese a recitare una sua poesia in turco ma scritta in caratteri latini. Joyce rimase ammaliata dalla dolcezza della lingua turca, ricca di vocali e liquide e dalla forza recitativa del poeta. Ma soprattutto rimase sconcertata dalla facilità con cui ogni parola, ogni idea fluissero senza difficoltà alcuna dalla mente dell’uomo alla sua, non lasciando mai spazi di dubbio sui concetti espressi ed il loro vero significato. Joyce si convinse che per tradurre un poeta non era quindi necessario conoscere la grammatica della lingua in cui si esprimeva ma era invece fondamentale stabilire un’affinità emotiva, possedere interessi in comune che avrebbero fornito la stessa cifra interpretativa della realtà. Entrò così nella vita di Hikmet, nei quartieri di Costantinopoli e Smirne, nei villaggi dell’Anatolia, tra i suoi amici e i suoi nemici. Lui le permise di vedere con chiarezza i paesaggi, sentire i suoni, cogliere i colori, ascoltare le voci. Attraversando le varie lingue parlate da Hikmet, che conosceva in modo alquanto approssimativo e fantasioso il russo, l’arabo e il francese, giunse nel suo mondo orientale e penetrò la lingua turca. Questo le diede la possibilità di sentirsi un tutt’uno con lui, che si sottoponeva di buon grado e graziosamente ai suoi interrogatori. Fortemente legato alla sua terra ma allo stesso tempo cittadino del mondo, in ogni angolo della Terra vi fosse stato un essere umano che lottasse per conquistare la sua dignità, Hikmet era presente, in spirito, entusiasmo, coraggio, dimenticando chi fosse, da dove venisse, le sue origini per immedesimarsi nei bisogni, nelle lotte altrui.
“Penso” diceva Hikmet “che la Poesia debba essere innanzi tutto utile, utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa, utile all’orecchio. Voglio essere capito e letto dal maggior numero possibile di persone, ai più vari livelli di cultura, nei più diversi stati d’animo, dalle prossime generazioni. Voglio essere traducibile per le nazioni più diverse”.
Joyce Lussu e Hikmet a Stoccolma nel 1958
Hikmet amava molto l’Italia che visitò più volte e Joyce Lussu lo invitò a Roma, per proseguire il lavoro di traduzione. La loro amicizia, fra una traduzione e l’altra, fu messa alla prova spesso dal temperamento irrequieto e singolare del poeta. Infatti, quando Joyce ritenne non solo opportuno ma doveroso mostrargli le bellezze architettoniche e artistiche romane facendogli da guida, egli le rimproverò di avergli rovinato tutto spiegando con dovizia di particolari la città di Roma, come una sterile guida turistica avrebbe fatto. Alla replica stizzita di Joyce, egli affermò con convinzione che del Rinascimento e degli antichi romani non gli importava nulla, che era un “barbaro” venuto dall’Asia e che del mondo classico di cui sono nutriti gli occidentali non sapeva che farsene. Non avrebbe più potuto guardare Roma con occhi diversi da quelli che gli aveva prestato Joyce, infarciti di date e spiegazioni. Joyce, nonostante il senso di colpa e la preoccupazione per averlo tanto turbato, continuò a stargli accanto durante il suo soggiorno promettendogli solennemente che mai più una sola data o nome sarebbero usciti dalle sue labbra. A tavola, davanti ad un piatto di melanzane in un ristorantino romano, continuarono le ostilità che non sfociarono però in litigio vero e proprio, in particolare quando Hikmet la provocò fortemente paragonando le melanzane d’Anatolia con quelle degli orti romani a mortificazione di queste ultime. Tuttavia Joyce fece molto più che sopportare le isterie e i capricci di Hikmet. Aiutò la moglie ed il figlio a lasciare la Turchia, in una rocambolesca fuga verso Varsavia, cosa di cui Hikmet le fu eternamente grato. Si incontrarono l’ultima volta a Parigi, e al solito litigarono per questo e per quello. Ma erano litigi ormai diventati familiari, l’affetto fra i due era tale che niente li avrebbe separati se non la morte del poeta che sopraggiunse per un infarto folgorante a Mosca, al numero 6 della via Pesciànaya, il 3 giugno del ’63, verso le nove del mattino.
Federica Galetto
Citazioni tratte da Tradurre poesia (ed. Robin, 1998)