Judd Apatow: the family man

Creato il 11 gennaio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

“Life is what happens while you are busy making other plans”, cantava John Lennon al figlio Sean. Un verso da una dolce ninna nanna dove, ripensando ai propri errori come padre, il cantante sussurrava consigli dal sapore zen, brevi suggestioni per cercare d’affrontare il futuro con lo spirito giusto. La vita è fatta così, inutile remargli contro cercando di fare progetti, meglio prendersi per mano e avere pazienza. Una riflessione che non deve essere passata inosservata alle orecchie di Judd Apatow. La carriera del regista, produttore, sceneggiatore americano, è, infatti, tutta all’insegna della massima filosofica creata dall’ex “scarafaggio”.

Qualcuno parla di Judd Apatow come se stesse discorrendo di Burger King, Playboy o Nintendo. Una sorta di catena di franchising dell’intrattenimento, un marchio nell’industria della commedia americana, insomma un brand dal sicuro appeal. Se un tempo ci si riempiva la bocca con la contrapposizione tra politica degli autori e artigianato ad alto costo di Hollywood, ora il segno distintivo di questo king of comedy rappresenta un bizzarro trait d’union tra questi due universi. Una macchina da soldi integrata felicemente nel mercato hollywoodiano, ma, al tempo stesso, il creatore di un universo pienamente riconoscibile. Forse solo Tarantino, negli ultimi tempi, è stato in grado di garantire una tale popolarità alle pellicole che vedevano il suo nome coinvolto a qualsiasi titolo. Un simbolo di appartenenza, un sigillo di garanzia per lo spettatore. Dici Apatow e pensi subito a bambinoni sboccati che trascorrono le giornate fumando e bevendo, un immaginario che si è identificato con una serie di volti ricorrenti che, ormai, fanno parte di una grande famiglia che ospita anche lo spettatore. Una factory rivoluzionaria, d’altronde è innegabile come l’intero corpus delle suo opere abbia avuto un impatto profondo per la commedia americana. Si può, sono i numeri a dircelo, senz’altro parlare di un prima e un dopo Apatow.

Nato nel 1967 a Syosset, New York City, da genitori ebrei che finiranno per divorziare, il giovane Judd, scosso dai trambusti familiari, ben presto trova una valvola di sfogo, anzi, sarebbe meglio dire un’ancora di salvezza, nel mondo della comicità. Esordisce esibendosi come stand-up comedian, scrive qualche battuta per i colleghi, inizia a lavorare come autore e produttore esecutivo di vari show televisivi. E’ chiamato a riscrivere anche qualche sceneggiatura per il cinema, un’opportunità che gli da modo di conoscere l’attrice Leslie Mann, con la quale si sposerà anni dopo.  Il 1999 è l’anno della grande occasione per Apatow, una grossa chance chiamata Freaks and Geeks. La serie televisiva, creata da Paul Feig e prodotta da Apatow, è il progetto della vita. Una storia in cui crede con tutto il cuore, che è sicuro gli garantirà ascolti e successo e, invece, si tramuterà in una ferita difficile da rimarginare. La serie viene cancellata prima che la sua prima stagione sia conclusa, i fan dello show solo anni dopo riusciranno a vedere le puntate finali. Quei ragazzi che davano corpo ai protagonisti, un nucleo di attori che il produttore trattava come consanguinei, troveranno col tempo la propria strada – alcuni ottenendo grande successo come James Franco – ma inizialmente rimarranno turbati da quanto accaduto. Colpiti al cuore senza rendersene conto, sospesi come figli di una coppia che ha deciso di lasciarsi.

Non è un caso che Apatow ne richiamerà molti nei suoi lavori successivi, come i membri di una famiglia allargata che è sempre un piacere ritrovare, scelte che parlano chiaro, così come le dichiarazioni: Quasi tutto quello che ho fatto al cinema è stato il risultato della mia reazione alla cancellazione di Freaks and Geeks, perché io amavo quei personaggi e quella gente e volevo sviluppare tutte quelle idee. Si potrebbe quasi dire che Molto incinta sia un episodio di Freaks and Geeks su Ken Miller (il personaggio di Seth Rogen nella serie) che mette incinta una ragazza. Non mi scaricare potrebbe essere Nick Andopolis (il personaggio di Jason Segel) dal cuore spezzato. È un modo per fare finta che la serie non sia stata cancellata.” Un dolore che è quello dei fan, di coloro che hanno amato la miglior teen dramedy mai prodotta dalla televisione. La migliore perché la più spietatamente sincera. Quella sincerità, perennemente in oscillazione tra brutalità e ingenuità, che è il marchio di fabbrica del suo autore. Non drammatizza la vita di quei ragazzi, ma la rende così vera da farla sentire sulla pelle dello spettatore come fosse la propria. La paura e la voglia dell’integrazione, l’orrore e il piacere della diversità, le scoperte, sofferenze, paure di tutti i giovani trovano così il loro racconto perfetto. La serie per eccellenza su quella cosa stupida e splendida che è la gioventù. Uno show per cui tutti noi dobbiamo essergli grati, anche coloro per cui Apatow rappresenta la bandiera proto reazionaria dell’America peggiore. Costoro corrano a recuperarla, osservando il destino di Sam, un ragazzino che s’innamora della sua nemesi, una conservatrice, e quello della sorella Lindsay, in cerca dell’indipendenza dalla famiglia, indecisa se salire di corsa su un van per il prossimo concerto di Jerry Garcia e soci.

Vinto ma non battuto, Judd Apatow, sceglie d’andare in prima linea esordendo nella regia: siamo nel 2005, è il tempo di 40 anni vergine. Siamo ancora alle prove generali ma è già evidente come il regista abbia chiaramente problemi con il tempo che passa. “Hai 40 anni ancora, oggi è come averne 20!”, una frase rivolta al protagonista, uno Steve Carell co-autore della sceneggiatura, che suona come inequivocabile. Il tempo è un concetto relativo, può essere modellato in base al proprio stile di vita, ma, che ci piaccia o no, prima o dopo ci pone davanti a delle scelte che non possono essere rimandate. Questi sono i quarant’anni. Un’età che ritroveremo come simbolo delle frustrazioni, ora invece è il trampolino di lancio verso l’abbandono di una lunga adolescenza. Il protagonista del film, Andy Stitzer, è rimasto traumatizzato dal suo primo approccio al sesso, per questa ragione è arrivato all’età di quarant’anni ancora vergine; ha deciso di combattere il tempo non crescendo, nella paura di prendere un rischio è rimasto intrappolato nell’adolescenza, bloccato nel terrore pre-sesso. Si tratta del primo esempio del personaggio tipo del cinema di Apatow: il bambino mai cresciuto. Un modello comico classico che vede, per rimanere negli USA, come riferimento principale Laurel & Hardy o il picchiatello Lewis, esempi di una comicità infantile dal sapore sovversivo. Archetipi che finiscono per combinarsi con la grande tradizione ebraica, creando un mix tra umorismo fisico e piacere della battuta, senza però tingersi d’intellettualismo. Non a caso l’ingenuità e l’innocenza sono caratteristiche permanenti dei suoi personaggi, che si fondono con una passione per la pop culture dai toni esasperati; per questa ragione la coprolalia, tipica del dialogo apatowiano, non ha nulla di osceno, rappresenta quasi una persistenza della fase anale del bambino. Non si tratta d’eccezioni, il regista guarda ai suoi coetanei, a coloro che meglio conosce. I tempi sono cambiati e se, all’epoca di Jerry Lewis, la figura dell’eterno ragazzo assumeva tratti quasi patologici, resi accettabili dalla comicità, ora viviamo in giorni che vedono al loro centro una generazione d’eterni adolescenti. Si è assistito a un’infantilizzazione che ha coinvolto le fasce d’età tra i 14 e i 45 anni, creando un limbo di perenne gioventù. Una fuga dalle incombenze della quotidianità che, nel caso del suo cinema, non trova neanche la sponda nell’aiuto dalla famiglia, non ci si trova dinanzi a dei “Tanguy” d’America, qui il nido familiare è stato disintegrato e non vi si può più fare ritorno. Tocca fare i conti con l’assenza della struttura familiare, che è ricreata attraverso l’esperienza del cameratismo maschile, assistendo all’innalzamento del rapporto amicale come struttura sociale alternativa. Se la famiglia d’origine è un’assenza da colmare, tocca allora agli amici riempire quel vuoto. Maschi beta privi d’ambizione e immaturi, bloccati in una spirale di junk food, pornografia e immaginario da nerd, coinvolti in rapporti basati su un umorismo volgare e un forte senso di fratellanza, queste sono le caratteristiche principali dei gruppi maschili che, come una famiglia sostitutiva, avvolgono i protagonisti apatowiani.

Un modello ideale di famiglia che è al centro dell’opera seconda del regista, quel Molto Incinta che l’ha consacrato al botteghino. Il paradiso adolescenziale, in cui Ben Stone vive insieme ai suoi amici, è improvvisamente turbato da una notizia: Alison, la ragazza con cui è finito a letto in una notte dall’alto tasso alcolico, è incinta. Dopo l’irruzione di una donna, nel caso del film precedente una Catherine Keener dai tratti materni, come veicolo dell’arco di trasformazione del personaggio, stavolta si assiste a un passo in avanti, insieme a una ragazza, arriva anche l’ombra della paternità. La formula bromance (neologismo che indica commedie romantiche maschio-centriche in cui il legame d’amicizia tra uomini prevale su storie d’amore eterosessuali), infatti, ha bisogno di un elemento per dirsi compiuta, richiede la presenza dell’altra metà del cielo; l’ingresso del personaggio femminile diventa così il motore per l’assunzione delle responsabilità, con la sua presenza nasce la necessità d’iniziare a crescere. Inevitabilmente la spinta verso la maturazione conduce alla ricerca di sé, un processo tipico dell’adolescenza che, con il superamento dei quesiti legati alla propria identità e ai propri bisogni, ne decreta la conclusione. I protagonisti, posti di fronte all’imprevedibilità della vita, vengono costretti ad alzarsi dal divano su cui hanno scelto di lasciarsi vivere, per cercare il proprio posto nel mondo.  Si tratta di riti di passaggio, un punto di vista per mostrare i personaggi nelle fasi in cui sono più esposti. Uno stato di crisi necessario per guardarsi allo specchio e mettersi in discussione, come sottolineato dalle parole del regista: “Il coraggio di scavare in profondità mi ha ispirato ad assumermi delle responsabilità e guardare parti di me stesso che ho provato a evitare con la dipendenza da lavoro e masturbazione”. Siamo di fronte a personaggi immaturi, vittime delle proprie paure, che cercano di migliorare, pur consapevoli che diventare adulti non è forse così divertente. Una consapevolezza interiore che li distingue dai protagonisti della saga di “Porky’s”, troppo scemi per avere dei dubbi, dai ragazzini di “Animal Pie”, troppo edonisti per preoccuparsene, e dalla goliardia del cinema di John Landis, dove regna l’anarchia antisistemica. Questo è lo spirito delle sue commedie, inutile evidenziare come le scelte scartate dai personaggi, vedi l’aborto nel caso di Molto incinta o il divorzio in Questi sono i 40, siano il simbolo del conservatorismo di Apatow; questi personaggi non potrebbero comportarsi in maniera differente perché quelle scelte finirebbero per confermare la loro inazione, e, le storie, anzi le loro vite non avrebbero mai inizio. Se è impossibile non rintracciare tracce di sessismo, come notato dalla stessa protagonista del film Katherine Heigl, nel ruolo affidato alle donne, contemporaneamente, non bisogna neanche enfatizzarlo eccessivamente, poiché è evidente la cura con la quale se ne esalta il sano pragmatismo unito a un’emancipazione pienamente raggiunta. Personaggi femminili reali, non angelicati, in piena parità con gli uomini. Si potrebbe dire, in linea con lo spirito del regista, che si tratta di un universo filmico in cui anche le donne fanno i peti, senza che ciò susciti stupore. Se il ruolo delle donne è anche quello di guidare gli uomini verso l’età adulta, possono però apprendere dall’immaturità maschile l’arte del gioco. Quando un uomo lancia un giocattolo a una bambina e lei corre a prenderlo, lui non la sta trattando come un cane ma stanno condividendo un momento ludico. Si stanno divertendo. Insieme. Qualcosa che Apatow non ritrova abbastanza spesso nella vita coniugale, come se i due sposi fossero entità distinte e apparentemente inconciliabili.

Il matrimonio di Pete e Debbie, personaggi già apparsi in Molto incinta, è in crisi. Questo quanto accade in Questi sono i 40, la sua pellicola più recente e da poco distribuita in Italia, un’analisi entomologica della crisi di mezz’età con le conseguenti ripercussioni sul rapporto di coppia. “Scene da un matrimonio” con le risate. Il realismo emotivo che permea lo sguardo del regista trova qui il suo apice di disincanto.  Il matrimonio, luogo utopico e simbolo dell’infelicità, viene esplorato nella quotidianità più logorante, nelle piccole ritorsioni e dispetti che conducono verso la morte del desiderio. Il rapporto dicotomico con l’istituzione familiare è il centro del cinema di Apatow, la famiglia è vissuta con timore ma, al tempo stesso, idealizzata. “Il matrimonio è una versione che non fa ridere di “Tutti amano Raymond”. Solo che non dura 22 minuti. Dura per sempre.”, una battuta che suona apparentemente come una pietra tombale sul tema. Come abbiamo già accennato, gli amici costituiscono una sorta di famiglia parallela, una rete di salvataggio, questo perché la sfiducia nel matrimonio è assoluta. La famiglia è vissuta come una medicina dal sapore odioso ma che va assunta, pena la sopportazione del dolore. Sono i due lati della medaglia di chi ha vissuto un’esperienza sgradevole ma che, per cancellarla, cerca di viverla a proprio modo, cercando di scombinare le carte nonostante le difficoltà. Una rivalsa verso i propri genitori e un atto d’amore verso i propri figli. Ed è a questo punto che irrompe la speranza, l’elemento che fa saltare il banco nel cinema – probabilmente anche nella vita – del regista. Un desiderio utopico, folle, naif, ingenuo, infantile di speranza. Il cineasta ha un’incontenibile necessità di lieto fine, di fronte al cinismo e pessimismo dei giorni odierni; consapevole che il suo universo vive in una contemporaneità che, per sua natura, idolatra il peggior finale possibile. Guardando anche alla serie “Girls” – popolata da narcisisti sgradevoli – da lui prodotta, non si devono difatti confondere i capricci dei personaggi con i desideri dell’autore, quelli che vediamo sono inequivocabilmente i rappresentanti degli errori della gente, che vengono seguiti senza essere giudicati. Il suo desiderio di creare una famiglia, fare dei figli, stringersi intorno agli amici, assume così il valore retrò di una lotta contro le derive egoistiche della modernità, pur conservandone le libertà e andando contro qualsiasi spinta moralistica. C’è qualcosa di onorevole nel lottare per il bene dei propri figli, mettendosi in gioco e provando duramente a far andare tutto per il meglio, ci vuole dire Apatow.

Ora facciamo un breve salto indietro. 2009, esce nelle sale Funny People. Una commedia da 146 minuti in cui il protagonista, il comico di successo George Simmons, guarisce indenne da una leucemia in stato avanzato senza che ciò ne migliori il pessimo carattere. “Tu sei l’unico che non ha imparato niente da un’esperienza di pre-morte!”, urla il personaggio di Seth Rogen a un Adam Sandler dal volto di pietra. Un “Viale del tramonto” senza corpi che galleggiano, in cui, per la prima volta, non ci si può fidare degli amici, tanto che la sincerità ha l’effetto di un colpo di pistola. Una storia a cuore aperto dove Apatow cerca di raccontare amare verità scovandone il lato divertente. Insomma siamo di fronte al suo film più personale, quello che tocca i nervi scoperti dell’autore. “Fai della tua vita una storia, Affrontala, valle incontro”, una battuta della pellicola che suona quasi come riflessione teorica sul suo approccio al mondo. D’altronde la scelta d’utilizzare come prologo del film un filmato privato, in cui un giovane Sandler è alle prese con scherzi telefonici, è un’evidente dichiarazione d’intenti. Realtà e finzione si mescolano, attore e interprete si sovrappongono, cinema e vita diventano una sola cosa. Chi è George Simmons? Non è altro che l’alter ego del regista in una vita parallela: quella in cui non ha creato una famiglia. Nonostante lo desideri con tutto il cuore, George, infatti, non riesce a distruggere il matrimonio della sua ex fidanzata, si ferma un attimo prima. Quasi fosse sacro, qualcosa d’inviolabile che gli si ritorcerebbe contro come un’antica maledizione. Una paura che svela le fragilità più intime del regista, stavolta nudo davanti allo spettatore e senza stampelle cui potersi appoggiare. Il protagonista si muove in una Los Angeles, epicentro di tutte le storie apatowiane, dove è la finzione a regnare, nessuno realmente espone i propri sentimenti. Una lotta senza quartiere tra comedian dove il dietro le quinte del mondo dello spettacolo diventa palcoscenico,  le esperienze di vita diventano materiale per un monologo e l’intimità maggiore, paradossalmente, la si concede solo al pubblico. Un esorcismo per i propri timori e, come si sa, quando si è impauriti bisogna attorniarsi di coloro che si amano. Si stringe così sempre di più il rapporto tra vita privata e produzione artistica, da qui la scelta di una compagnia d’attori in stile commedia dell’arte, dove Apatow può presenziare come capocomico. Una grande famiglia con il regista a capotavola. La scelta d’affidarsi a interpreti che ritornano di film in film, è, innanzitutto, una scelta che agevola il lavoro registico, evidentemente d’origine televisiva. Conoscendo al meglio i suoi attori, lo spazio scenico può essere modellato in loro funzione, così chi recita viene messo in condizione di poter improvvisare al meglio; una regia invisibile di stampo classico, che lavora su lunghe riprese con più coperture da poter rielaborare con un attento lavoro di montaggio, in questo modo si è certi di poter mettere la performance dell’attore al centro della messa in scena, servendo al meglio la sceneggiatura. Un cinema di corpi e battute. Ma questi volti che ritornano ossessivamente sono anche l’espressione della volontà di creare un cinema libero, home movies interpretati da professionisti. Un’idea di cinema come diario personale. Non stupisce dunque che la moglie e le figlie di Apatow siano presenti in tutte le sue opere, lo spettatore ne può così ammirare i cambiamenti e la crescita in tempo reale, quasi fosse uno di famiglia. Numi tutelari come Cassavetes e Truffaut, per il corto circuito tra vita e cinema, appaiono conseguentemente tra i più vicini al regista. Un mondo cinematografico in parallelo al mondo reale, alla ricerca della più sincera verosimiglianza. Il cinema come una campana di vetro in cui, mescolandosi finzione e realtà, si rincorrono nomi che diventano espressione di una grande famiglia. Leslie Mann, Maude Apatow, Iris Apatow, Seth Rogen, Paul Rudd, Jonah Hill, Jason Segel, Martin Starr, Adam Sandler, Steve Carell, Lena Dunham sono i membri della famiglia allargata di Judd Apatow. Puro spirito progressista.

Rosario Sparti


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