JULIE’S HAIRCUT: comunicare per suggestioni

Creato il 08 ottobre 2014 da Thefreak @TheFreak_ITA

Quando un insieme di suoni diventa una sonorità e una sonorità diventa un’atmosfera?

La risposta è Ashram Equinox e la danno i JULIE’S HAIRCUT, headliner al WAREHOUSE DECIBEL FEST che si è svolto ad  Arezzo, rispondendo alle nostre curiosità sul loro ultimo album.

Ashram Equinox è un disco interamente strumentale dal gusto elettronico e psichedelico ma con contaminazioni che spaziano dal jazz al dub alla musica etnica, nato dopo un lavoro di tre anni che ha dato origine a pezzi molto diversi, alcuni dei quali sono confluiti in un precedente ep. L’anima strumentale non esclude del tutto le voci, usate come componente musicale in alcuni cori, ma elimina completamente i testi. Tuttavia sono proprio le uniche parole superstiti, quelle dei titoli, che unite alla componente visuale, forniscono la chiave di lettura dell’intero album.

In un linguaggio strumentale la comunicazione del significato è veicolata dai suoni ma per interpretarli nel modo giusto risultano comunque essenziali le parole. Che legame strutturale c’è tra i titoli e i brani?

“C’era l’idea di ampliare un po’ i nostri punti di riferimento e i titoli sono costituiti da parole anche appartenenti a lingue non occidentali. Ogni termine, anche se in modo non diretto, non esplicito, si ricollega all’atmosfera del brano a cui dà il titolo. Ad esempio l’ashram è il luogo in cui si fa meditazione e nella meditazione sono previste varie fasi, in genere tre. Il brano è diviso proprio nelle stesse tre fasi, parte con un inizio un po’ caotico in cui i pensieri si mescolano e la concentrazione fatica a trovare la sua strada, pian piano arriva un ordine e una terza parte finale in cui il pensiero si annulla totalmente. Si tratta più di suggestioni che di spiegazioni.”

In questa atmosfera al confine tra lo psichedelico e il meditativo, che ruolo svolgono le immagini della copertina e del booklet?

“Pasquale De Sensi si è occupato della grafica e il nostro rapporto con lui è nato in maniera abbastanza casuale, l’abbiamo conosciuto a una sua mostra, c’ aveva colpito il suo stile. Gli abbiamo chiesto se voleva collaborare con noi alla realizzazione della grafica e lo ha fatto  mentre lavoravamo al disco. Man mano gli passavamo le tracce e lui traeva ispirazione dalla musica ma, contemporaneamente, anche noi traevamo ispirazione dalle sue immagini. Mentre stai creando, quello che fai ti appare in maniera abbastanza nebulosa, la parte visiva è quindi fondamentale per orientarsi e ti aiuta a capire meglio quello che fai.”

I video che avete creato per internet sembrano quasi stridere con il vostro genere e i vostri suoni. Questo contrasto, sempre che per voi ci sia, è voluto?

“A ogni brano abbiamo associato dei video tratti da vecchi filmati di una banca dati americana. L’idea di partenza era creare un veicolo promozionale per l’album che non fosse un classico videoclip. Abbiamo trovato video che vanno dagli anni 40’ ai 70’, alcuni sono degli educational, uno contro l’uso delle droghe. Sembrano contrastare con l’idea della psichedelia ma è stato interessante proprio creare un cortocircuito di significato. Anche qui è tutto a livello di suggestioni più che di riferimenti diretti. Poi ci piaceva ricollegarci all’immaginario del passato, nella nostra musica ci sono molti riferimenti ma siamo convinti che sia anche molto contemporanea a livello di suoni. Quindi abbiamo trovato stimolante l’unione tra l’immaginario vintage con figure sgranate e l’utilizzo del super8 che si rifanno a un certo tipo di cultura, soprattutto americana, e la nostra proposta attuale.”

Il disco spazia dal rock, all’elettronica, alla psichedelia, con tracce di jazz e musica etnica ma all’ascolto si presenta come un prodotto unitario nel suo eclettismo. Qual è stato l’approccio nella realizzazione dei singoli pezzi?

“I pezzi sono nati con un lavoro quasi labirintico. La nostra evoluzione musicale nasce credo dalla nostra curiosità innanzitutto di ascoltatori di musica e questi diversi ascolti sono finiti dentro alla musica che facciamo. C’è poi un’ampia libertà di intervento sulle cose che ci permette di non limitarsi a ruoli definiti. Siamo forse più un’unità produttiva, le parti che ognuno di noi suona dal vivo non sono sempre le stesse che ha suonato nell’album. Nel disco in alcuni casi siamo partiti dalle prime take per poi creare  un vero ambiente sonoro oppure, più spesso, abbiamo iniziato da un solo elemento. Tutto questo viene poi sottoposto a un lungo lavoro di editing che permette di togliere il superfluo e creare un flusso assolutamente naturale.”

A cura di Elisabetta Rapisarda.


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