TFF32: Gran Premio Torino a Julien Temple
Sovversivo e appassionato come la Londra che ha raccontato per tanti anni nei suoi documentari sui Sex Pistols e il movimento punk (“La grande truffa del rock’n'roll”, “Oscenità e furore”, “The Filth and the Fury”) o attraverso un capolavoro di eccentricità e bizzarria come “Absolute beginners”. Rivoluzionario Julien Temple lo è ancora, oggi forse più di ieri, soprattutto quando non esita a dichiarare alla conferenza stampa per la consegna del Gran Premio al Torino Film Festival, che “l’industria musicale è riuscita a distruggersi con le proprie stesse mani perché non ha capito da che parte stare”. Il punk continua a essere al centro delle sue narrazioni, il comune denominatore di quasi tutte le sue opere, anche se adesso è solo un ricordo perché “non mi pare che dopo il punk, a parte l’hip hop, sia successo granché”. O quantomeno nulla di paragonabile alla scena musicale di quegli anni.
Nel 1980 a Bologna i Clash furono boicottati dal movimento punk. Che opinioni ha di questa lotta intestina di punk contro punk o punk contro ex punk?
All’interno del movimento punk ci sono sempre stati grossi sconvolgimenti, lotte fratricide e movimenti scismatici, c’erano all’epoca dei signori della guerra che lottavano spesso l’uno contro l’altro. Ho lavorato sia con i Sex Pistols che con i Clash e mi ricordo che mentre filmavo sia una band che l’altra il manager di quest’ultima a un certo punto mi chiese di scegliere e prendere una posizione: non avrei potuto girare un film su entrambi e allora scelsi e mi misi dalla parte dei Sex Pistols. Il mio lavoro è sempre stato quello di mettermi al servizio del punk, cercando di mettere in luce tutti gli aspetti positivi di questa band, non certo quelli che potevano essere di un approccio più fascista o razzista. Volevo distaccarmi da quella parte della scena musicale, il movimento punk è stato un momento di liberazione e non certo di razzismo o bigottismo; volevamo che si condividessero le cose tutti insieme, anche se spesso con una tattica particolarmente scioccante. Mi ricordo di quanto allora fossi contrario al movimento hippy, mi sembrava uno di quei cappottoni afgani stagnanti, ma ora quando ritorno con la mente a quel periodo penso che tutto sommato non aveva nulla di così negativo per cui farsi odiare, in fondo era assimilabile al punk anche se con approcci diversi. La lotta dell’uno contro l’altro c’è sempre stata, sin dalla preistoria; non capisco come a Bologna i Clash non siano stati così apprezzati e amati, ma sono cose che succedono all’interno della scena musicale. Detto ciò, non mi pare che dopo il punk sia successo granché nel panorama a parte l’hip hop.
Come è cambiato il mercato musicale? Ci sono dei gruppi che secondo lei vale la pena seguire?
I Sex Pistols all’epoca fecero di tutto per cercare di distruggere il mercato dell’industria musicale ma, ironia della sorte, 35 anni dopo vediamo che l’industria musicale è riuscita a distruggersi con le proprie stesse mani perché non ha capito da che parte stare e non è riuscita a stare dalla parte giusta con l’avvento del digitale. Il punk ha provato a distruggere le etichette musicali ma non ci è riuscito, ha fallito; oggi il mondo è diverso, il movimento punk è stato un po’ come far cadere un guanto e ci aspettiamo che qualcuno riesca a trovarlo e raccoglierlo. Nel frattempo è nato l’hip hop negli Stati Uniti, poi è arrivato il movimento dei Rave, ma nulla è paragonabile alla scena musicale di allora. Certo, credo che venga prodotta della musica fantastica anche oggi, ma è tutto molto a compartimenti stagni; in questa varietà ognuno può trovare la propria musica, basta andare su Youtube. Ma nessuno è travolgente come il punk che è riuscito invece a coinvolgere tutti a livello sociale, sia in un modo positivo che negativo. Sento mio figlio seguire tantissimi gruppi musicali e considero la musica che ascolta molto buona, ma ancora una volta non è una musica che va a toccare il gusto di tutti, forse bisogna fare qualcosa di davvero cattivo, sconvolgente e oltraggioso per riuscire a conquistare il pubblico là fuori.
Oggi siamo condannati a ripetere sempre le stesse cose, non è ancora stata inventata una forma che possa tenerci tutti uniti e che faccia in modo che la musica sia per tutti come ci piaceva negli anni ’80. Chissà che il mondo digitale non possa essere di ispirazione al cambiamento e avere un forte impatto, ma il tempo sta per scadere, stiamo davvero progettando la nostra estinzione come esseri umani, qualcosa dovrebbe succedere ma non vedo nessun cambiamento. Forse un giorno qualcuno mi darà una botta intesta e mi dirà: “Guarda, è accaduto”.
Cosa pensa della scena cinematografica inglese contemporanea? Ha qualche contatto con i giovani autori? Sembra che talenti migliori siano sempre destinati a lavorare a Hollywood.
È assolutamente vero, anche se sono sempre stato un outsider rispetto al cinema mainstream del Regno Unito. Dopo “Absolute beginners” passai per quello che aveva distrutto l’idea di cinema inglese e così fui costretto ad andarmene a lavorare negli Usa, e non certo per comprarmi una piscina ma perché in Inghilterra non avrei potuto continuare a fare il mio lavoro. Il cinema inglese ha delle regole ben precise che vanno rispettate e io le avevo evidentemente infrante. Sento però di essere molto più vicino al cinema Sud Americano o al cinema indie statunitense che non a quello inglese. Ci sono degli ottimi registi, ma non possiamo dire che si tratti di un momento d’oro per il cinema inglese come quello degli anni ‘60. La tv invece è più aperta rispetto al passato alle sperimentazioni. C’è una persona ad esempio alla Bbc che mi permette di lavorare tantissimo in ambito televisivo, cosa che negli anni passati non mi sarebbe stato possibile; attualmente infatti sto lavorando su tre progetti, tra cui un concerto dei Clash a Capodanno del 1977 per l’inaugurazione del Roxy Club.
I film invecchiano meglio delle rock star? I tuoi film alla fine hanno funzionato meglio della stessa band?
Penso che i miei due film sui Sex Pistols funzionino molto bene l’uno insieme all’altro e ho goduto appieno nel lavorare su di loro e sullo stesso argomento. Tutti mi dicevano: “Sei pazzo! Non puoi realizzare lo stesso film su una band di cui ti sei già occupato”, ma questo non faceva altro che confermarmi che era la cosa gusta da fare. “La grande truffa del rock’n'roll” fu un atto polemico, i fan dei Sex Pistols erano arrabbiatissimi, li feci infuriare come se li avessi provocati, ma l’idea che in quel film davo dei Sex Pistols non era quella della band stessa; era piuttosto ciò che loro avevano sempre voluto fare e cioè distrugger tutto quello che poteva rappresentare essere una star o creare del business. Diciotto mesi dopo, quando i Sex Pistols si sciolsero, ci furono altri ragazzi che all’interno del movimento punk provarono a diventare famosi come loro e ne “La grande truffa del rock’n'roll” sembravo quasi non meritevole del rispetto ottenuto; nel film passava l’idea che i Sex Pistols fossero quasi dei burattini nelle mani di Malcolm McLaren, ma non era assolutamente così. L’operazione ha funzionato in entrambi i modi e venti anni dopo lavorare ancora sui Sex Pistols mi fece capire che potevo sfruttare un altro punto di vista, quello della Londra dei conflitti sociali e delle classi operaie, e mettere al centro la musica della band. A dire il vero sono stato un po’ birichino a scegliere i materiali da usare in quel film, tanto che McLaren mi licenziò; il nostro rapporto si concluse con lacrime e sangue, passammo così dall’essere molto amici a non rivolgerci più la parola. Un giorno ci ritrovammo seduti uno accanto all’altro su un aereo per Los Angeles e sentivo l’odio, credo che però abbia capito alla fine il mio punto vista.
di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net
Foto: Pagina Facebook Torino Film Festival