Jurassic World: vintage park delle meraviglie.

Creato il 17 giugno 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Avevo 5 anni quando nel 1993 uscì al cinema Jurassic Park di Steven Spielberg. Ero troppo piccolo per vederlo e i miei genitori non mi portarono in sala. Anche ad oggi pagherei un occhio della testa per vedere quel film e quei lucertoloni sul grande schermo.
A 22 anni di distanza da un film che ha segnato un’epoca e l’immaginazione di grandi e piccoli, Jurassic World diretto da Colin Trevorrow trasforma il mio sogno in realtà. Certo Jurassic World non è Jurassic Park, non è l’originale (imbattibile!), ma ci si avvicina molto.

In Jurassic World anche il sogno dell’ormai deceduto John Hammond (Richard Attenborough) prende vita e il parco divertimenti più figo della storia del cinema apre al pubblico. Isla Nublar attira milioni di turisti da tutto il mondo e come ogni parco che si rispetti, dopo qualche anno dall’apertura, necessita di una nuova attrazione per non patire flessioni di affluenza. Più grande, più spaventoso e più spettacolare sono i tre must che confluiscono nell’efficace “più denti”, ossia dinosauri sempre più mastodontici, affamati e (in)feroci(ti). Ma qualcosa – come è ovvio – sfugge di mano, anzi “qualcuno” (s)fugge dal recinto…

Jurassic World tira fuori tutti i denti che ha per un film che, proprio come il park di Isla Nublar, punta al divertimento dello spettatore. L’azione domina sulla suspense, così come la componente “drammatica” si impone sulla “presentazione” degli antefatti. Ed è giusto così. Jurassic Park aveva da introdurci nel territorio, mentre ora sappiamo già tutto e vogliamo solo goderci le nuove assordanti e pericolose attrazioni.
Jurassic World è una vera sorpresa e dimostra di avere alle spalle una sceneggiatura solida, ben studiata nei molteplici rilanci della storia e nei colpi di scena. Una sceneggiatura che non rinuncia ad illustri e cruenti ammazzamenti, di quelli che impressionano e divertono, scioccano ed entusiasmano. Una sceneggiatura nella quale si sente forte la mano di Steven Spielberg, il quale, tolti i panni di regista, indossa ora quelli di produttore. In Jurassic World fa sentire la sua presenza condensando on screen svariati elementi della sua mirabile filmografia (lo squalo mangiato dal mosasauro è un omaggio alla progressione compiuta dalla paura da Lo squalo fino ad oggi, così come le posture e gli abiti di Chris Pratt riecheggiano quelli di un novello e redivivo Indiana Jones). Jurassic World dimostra dunque, almeno e soprattutto a questi livelli, come il producer system ad Hollywood sia vivo e vegeto più che mai.
Una sceneggiatura che (inevitabilmente) accoglie in sé molteplici e goduriose citazioni, se così possiamo chiamarle, del primo Jurassic Park. Si va dalle uova che si schiudono all’apertura della gigantesca porta d’ingresso al parco, dall’esile jeep rossa guidata da Sam Neil agli insetti fossilizzati nell’ambra.
C’è quindi tanto e sano gusto vintage in Jurassic World, indice di uno Spielberg nostalgico e consapevole delle splendore dei mitici anni Ottanta e Novanta. Un gusto vintage, a ben vedere, riscontrabile anche in altri suoi colleghi, come nell’amico regista e produttore di J. J. Abrams, per il quale Spielberg non a caso ha co-prodotto Super 8, a sua volta in odore di Goonies, film scritto e prodotto, anch’esso, proprio da Spielberg.

La sceneggiatura colpisce anche a livello tematico con una certa varietà di topics: la relazione quasi umana che si viene ad instaurare tra uomini e dinosauri (o meglio tra il personaggio di Pratt e i Velociraptor), l’isolamento e la crescita in cattività come fonte della rovina “spirituale” di animali come di uomini, l’uso militare di dinosauri al posto di centinaia di soldati sui fronti di guerra. Insomma, in Jurassic World c’è tanta carne al fuoco e data in pasto agli spettatori, tanta carne che cuoce bene prendendo sempre più sapore.

Quanto al cast, assolutamente perfetto il bambino, Ty Simpkins, faccia giusta che pare fuggita dal gruppetto di giovincelli di E.T.. Convincono anche  Irrfan Khan, B.D. Wong, Vincent D’Onofrio. Invece, e mi duole dirlo, è assolutamente stonata la prova di Bryce Dallas Howard, troppo di maniera in un contesto che stupisce per la scioltezza delle altre performance attoriali. E poi c’è lui, Chris Pratt (I guardiani della galassia), al quale non avrei dato un centesimo, che invece si dimostra sublime dietro quella magliettaccia alla James Dean e quel sudore freddo e bisunto alla Indiana Jones. Chris Pratt, e anche questo un po’ mi duole dirlo, ha la vera stoffa del divo americano, di quei divi di un tempo (ri)aggiornati ad oggi. Diciamocelo: il ragazzo farà strada…

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