Oggi ho conosciuto un partigiano, il partigiano Stoppa della Valdisieve, ottantotto anni, l'ho sentito raccontare le sue avventure di Resistenza, dalla diserzione della leva nel periodo che va dalla caduta di Mussolini all'armistizio, alla sua scelta di andare alla macchia, prendere le armi, combattere a fianco dei partigiani. Un'ora bella, a sentire la testimonianza di cammini interminabili di notte tra i valichi dell'Appenino tosco-romagnolo. I pidocchi. Le staffette. Gli assalti. Gli accerchiamenti. La fuga. I ritorni a casa. I bombardamenti. La tattica. La paura. La fame (bistecche di muli stremati uccisi con colpo di fucile per risparmiarli dalla fatica di camminare sulla neve). La liberazione di Firenze.
Stoppa era il nome di battaglia. Dovevano bruciare tutti i documenti che avevano, i partigiani, dimenticarsi il loro nome. E lui il suo nome l'aveva preso da un giovane partigiano romagnolo ucciso dai tedeschi a inizio Resistenza. A lui è andata bene, si può dire; però, quando ci ha mostrato la foto di quel partigiano da cui prese il nome, i suoi occhi si son fatti lustri.
Che cazzo di scelte ci restano oggi in questa bolgia di fatti che ci rende incapaci d'individuare un nemico preciso, che vada fuori dal mero dato personale di costruzione di rancori, invidie, risentimenti di basso conio? C'è o non c'è un nemico vero da combattare, a cui opporre resistenza? Una patina untuosa riveste la realtà: la terribile fortuna che non ci sono più quelli cattivi.