Prima, però, due parole su questo artista-designer-artigiano, che trovo molto interessante. Novak ha avuto nel tempo molte case: San Juan (Porto Rico), Zagabria (Croazia), e poi anche Roma – un’esperienza, quest’ultima, che lo ha forgiato più di altre «questa è stata l’esperienza più formativa nel mio sviluppo come artista. Sono rimasto affascinato dalla narrazione cattolica del martirio, e il modo in cui l’intera cultura si fondasse sull’estetizzazione della morte e della deturpazione, e per molti anni ho fatto tutto quello che poteva essere fatto per risalire a quelle figure trascendenti». Trasferitosi a New York, per 12 anni Novak intraprende la carriera di illustratore freelance e graphic designer. Ma poi il focus del suo lavoro si sposta sull’arte della ceramica.
Ok. Che qualcuno usi la ceramica per dare un po’ di morbosa inquietudine dovremmo averlo capito. Vediamo che fa Justin Novak. Sul concetto di disfigurina l’artista si è espresso così: «La statuetta in ceramica ha storicamente incarnato un mainstream, l’ideologia borghese, e per questo motivo l’ho usata per comunicare una visione alternativa, un’anti-statuetta ironica, la disfigurina. Nella serie disfigurine, le ferite fisiche, come le contusioni e le lacerazioni sono metafore di traumi psicologici. Considerando che le statuette hanno storicamente rappresentato le regole e gli ideali della cultura dominante, le disfigurine parlano dei danni inflitti da quelle stesse aspettative».
Non è un caso, forse, che io nel lavoro di Novak sia incappata in una condizione di lacerazione estrema. La prima ad avermi colpita è stata l’immagine di una giovane donna seduta, nuda, con crepe a percorrere tutto il corpo e a significare i traumi subiti nel tempo. Su uno degli avambracci, in corrispondenza delle vene, uno squarcio verticale, forse autoinflitto; l’altra mano intenta a ricucirlo con ago e filo. Altre disfigurine mostrano: teste decapitate, morsi sulla schiena che quasi asportano via la pelle, un uomo e una donna che si leccano le ferite reciproche. La morte non c’è sempre, no. Piuttosto è una morbosità liscia e raffinata l’elemento prevalente, come conferma anche Novak: «Le narrazioni che coinvolgono la morte e la violenza sono particolarmente ricche e potenti. Questi soggetti sono spesso trattati in modo così casuale, che col mio lavoro cerco di fare uno sforzo per sondarle in maniera più penetrante. La mia opera d’arte ha sempre avuto una forte vena morbosa».
Non lo si percepisce solo dalle disfigurine, ma anche da altri lavori come 21st Century Bunny, dove il coniglio, da classico simbolo della mancanza di coraggio si trasforma in emblema del comportamento violento. Non che la violenza sia sinonimo di coraggio. Tutt’altro. Forse la paura, portata alle estreme conseguenze, diventa esattamente questo: un coniglio bastardo, armato di pistola, inneggiante alle bombe e alla catastrofe e tendenzialmente pronto a uccidere. Così, in un amen.
di Silvia Ceriani
Le quotes di Justin Novak le ho riprese di qui.