Kaffè Berlin al Teatro della Contraddizione

Creato il 19 febbraio 2015 da Temperamente

Marco Maria Linzi firma la drammaturgia dell’ultima produzione del Teatro della Contraddizione di Milano, lo spettacolo sperimentale Kaffè Berlin.

Sono sicura che in molti arricceranno il naso davanti alla locuzione “drammaturgia sperimentale”; in effetti, in moltissimi casi, hanno ragione a farlo. Come dicono già da tempo attori e teatranti con una lacrimuccia molto mélo, «il teatro è morto», perciò, cos’altro abbiamo da sperimentar/provare? Sfidando questa ormai consolidata (dalle penose entrate delle biglietterie) certezza, il Teatro della Contraddizione invita ad entrare al Kaffè Berlin, dove «non si viene per capire un messaggio né per raccontare una trama».

Come avrete potuto intuire dalla premessa arzigogolata, tante sono dunque le cose da dire sullo spettacolo e cercherò quindi di andare con ordine. Comincerò specificando che il Kaffè Berlin vi porta direttamente in quello che non si presenta come un canonico spettacolo teatrale (altrimenti, che sperimentale è?), perché la compagnia vuol darci l’idea di trovarci in quello che potrebbe essere un bistrot berlinese, precisamente il caffè di un bordello: sistemati ai tavoli, in cui ogni avventore sarà posizionato a caso, si è salutati all’arrivo dal canto in stile burlesque da un trio di procaci prostitute. Sin dal principio si capisce che non è una canzonetta qualsiasi quella che le tre vanno cantando: «ho fatto a pezzi il mondo» e «la pelle umana è sottile» non sono semplici ritornelli di un lifestyle che è un’imposizione di libertà e autonomia, per un mondo che è decisamente sbagliato.

Poco alla volta, i bizzarri camerieri e musicisti da saloon si raccontano, ognuno con i propri scheletri nell’armadio, ognuno con il proprio lavoro alienante e famiglia dissestata, da cui scappano rincorrendo o buttando all’aria le proprie aspirazioni e sogni. Queste personalità borderline dall’aria vagamente steampunk servono e invogliano la clientela con giochetti e (chiaramente finti) happening: al Kaffè Berlin mentre bevi il tuo bicchiere di vino o birra annacquata qualcuno ti disturberà puntualmente per leggerti la mano, accarrezzarti, puntellarti e truccarti. E fin qui va bene, perché nel teatro sperimentale è cosa buona e giusta che la barriera tra pubblico e attori sia sfondata, che ci sia interazione e la narrazione prenda una piega più o meno prevista dal copione.

Ci sta, e anche bene, la critica al consumismo, alla finta libertà del presente, la presa in giro a mostri sacri della letteratura e della drammaturgia, come Cechov o Mann, che telefonano al Kaffè per avvisare che non potranno esserci – anche se la qualità delle freddure lascia un po’ a desiderare – rivedicando quella morte del teatro, o almeno di un certo tipo di teatro; ci sta la denuncia alla difficoltà che in questo paese vivono le coppie diverse, omosessuali o appartenenti ad altre categorie, così come ci sta sottolineare la conclamata mercificazione del corpo della donna, la sua vendita in ogni salsa, catto-protetta e benedetta, tanto che, a questo punto, è pure giusto scegliere di esser liberamente una puttana piuttosto che una involontaria ridicola donna-(comunque) oggetto. Ci sta, perché evidenziano, burlandosene, la tipica logica della doppia morale, tipicamente italiota, da cui è ormai illecito chiedersi se ci liberemo mai – a mio parere, la risposta, è no. Ci stanno, ed ho molto apprezzato le varie réclame esistenziali, che propongono soluzioni estremi ai problemi esistenziali, in cui il suicidio collettivo è la più dolce delle possibilità.

Ci stanno tutte queste cose, è per questo che il teatro, sperimentale e non, deve continuare ad esistere. Però. Ogni critica, per quanto pedante, puntuta e precisa sia, a un certo punto deve terminare oppure evolvere, specialmente in uno spettacolo. Altrimenti si rischia l’ “effetto pezza”. Cos’è l’ “effetto pezza”? Lo spiego subito: hai presente quando qualcuno inizia a parlare, dicendo qualcosa che condividi, annuisci e per te la cosa è finita lì, c’è stato un bello scambio umano e la Terra ti sembra un posto meno solitario, ma dopo poco quello pensa di aver trovato la sua anima gemella smarrita da vite precedenti e inizia a ripetere la stessa cosa all’infinito neanche fosse Forrest Gump? Ecco, questo è l’effetto pezza (dall’espressione “attaccare una pezza”). Questo purtroppo è quello che accade al Kaffè Berlin: le storie e le azioni si ripetono, stigmatizzate. Gli attori perdono definitivamente la propria personale battaglia contro la falsità e passano direttamente da personaggi a maschere vuote, come fossero bambole rotte incantate sulle stesse frasi.

Lo spettacolo, che ha anche un piccolo, inspiegabile break, si trascina per più di tre ore, massacrando, infine, gli astanti. Il livello di grottesco e ridicolo quasi diventa insopportabile, forse nel tentativo di ricreare un voluto clima paradossale da vero caffè-bordello berlinese; il problema è che in uno spettacolo teatrale quest’intenzione si tramuta in un appesantimento non necessario del tutto, che va ben oltre la durata stessa dello spettacolo.

Nel Kaffè Berlin, quindi, ho intravisto tante buone idee, forse pure troppe, e quasi tutte ancora in via di formazione, in fase di assumere una forma definitiva. Innovare quest’arte performativa non è impresa semplice ed un plauso va comunque al Teatro della Contraddizione, che non si stanca di sperimentare e cercare nuove vie respiratorie e artistiche; col suggerimento, però, di lasciare anche spazio al non detto, stimolando maggiormente l’intelletto del pubblico, senza dimenticare mai l’arte della leggerezza.


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