Kairo, un titolo che non definiremo “arte”, ma grazie al quale cercheremo di spiegare meglio perché tanti pareri discordanti, su cosa sia arte e cosa non lo sia, siano spesso fini a se stessi. Basta poco per comporre qualcosa di speciale ed essere ricordati nel tempo, ma c’è bisogno di tanto talento, e lo sviluppatore Richard Perrin questo lo sa bene, avendo confezionato con Kairo qualcosa che va oltre il classico intrattenimento; ha dato vita a qualcosa di meraviglioso, a qualcosa che nasconde, fino ai titoli di coda, un profondo significato. D’un tratto, si tornerà a pensare alle semplici basi di partenza che le cose importanti richiedono, basterà non perdere mai la speranza e trovare intorno a sé le persone giuste.
Kairo è senz’ombra di dubbio un titolo coraggioso e costituisce l’insieme delle risposte adatte alle domande poste poco sopra. Dall’autore di The White Chamber, che a breve rilascerà anche l’interessantissimo Journal, un’opera sicuramente unica ed inimitabile, che riesce a trasportare il suo osservatore/giocatore in maniera egregia, ponendosi a ridosso di altre produzioni videoludiche ormai in fila indiana sulla linea di confine tra arte e videogioco. Distaccandosi totalmente dalla sua prima produzione, Richard Perrin ci propone un puzzle game con l’esplorazione a fare da punto focale di tutta l’esperienza di gioco; un gioco in prima persona con ambienti minimalisti ma dallo stile unico: a grossi spazi aperti se ne alternano altri più piccoli e ristretti, in ogni caso pieni zeppi di sculture e monumenti che donano il giusto mix tra fascino e mistero su cui il titolo gioca molto per attirare attenzione su di sé. Non è il primo gioco indipendente a non darci uno stralcio di spiegazione, di trama, del perché andare avanti dopo essere stati catapultati in uno strano mondo apparentemente privo di vita. Costruzioni imponenti, all’apparenza musei, costruzioni storiche, di un’epoca diversa; squadrate, piene di spigoli vivi e colori. Colori d’ogni tipo, a testimonianza di ciò tonalità sempre più variegate vanno a comporre e dar vita alle stanze nelle quali sarà richiesto il nostro intervento. Quale? Quello di risolvere enigmi, di risolvere puzzle che possano far tornare in vita le strutture di cui è composto quello strano habitat. Gli istanti iniziali sono spiazzanti: pochi passi, poi il vuoto ed un tuffo al cuore nell’istante in cui si decide di avvicinarsi all’edificio più vicino, imponente, bello grosso al nostro orizzonte. Dove siamo e chi siamo non ci è dato saperlo, basterà soltanto andare avanti ed arrivare ai titoli di coda per capire il significato nascosto in Kairo.
Affidandoci a mouse e tastiera, così, non dovremo far altro che muoverci ed esplorare, osservare e fare tesoro di simboli e segnali, che potrebbero essere aiuti nascosti al puzzle di turno. Veri e propri indizi visivi, spesso è così che si verrà a capo dell’enigma presente nella stanza in cui si è fatto accesso; in altri casi, ci sarà bisogno di più perspicacia e dell’utilizzo di meccanismi che garantiscano il risultato, magari tramite attivazione che implica l’esecuzione di azioni in un determinato ordine, o di eventuali oggetti da spostare per consentire l’innesco di accensione. Tutto è intuito, spesso anche improvvisazione, e la cosa non dispiace per il suo essere sperimentazione, comunque legato ad un qualcosa di più tangibile come può essere un gioco composto da puzzle. Uno di quelli particolari, però, dato che non avremo HUD o interfacce ad aiutarci e guidarci: Kairo non ha bisogno di questo, ma di sola concentrazione all’insieme di ambientazioni e musiche che ci guidano nel corso della strana, a tratti surreale, avventura. Musiche composte da Bartosz Szturgiewicz (qui un assaggio), che scorrono via lisce donando grande tranquillità e risultando invece decisamente più dure e minacciose in altre circostanze. Ogni ambiente avrà un tema proprio, in alcuni casi il silenzio farà da sottofondo e soltanto il rumore dei nostri passi ci accompagnerà in alcune scoperte; si aggiungono rintocchi di campana, lo scorrere dell’acqua ed il soffiare del vento, tutte situazioni che Kairo vi chiama a vivere attraverso i vostri occhi e le vostre orecchie. Una colonna sonora, per farla breve, che non si può definire “capolavoro”, ma che si adatta dannatamente bene alla tipologia di gioco confezionata dallo sviluppatore; ascoltata normalmente renderebbe molto meno che se applicata al contesto del gioco, questo è sicuro.
In definitiva, Kairo è un puzzle game che non ci pone vincoli ed in cui bisogna risolvere enigmi riguardanti opere morte, stanche di funzionare perché antiche, vecchie, consumate, in un certo senso “dormienti”. Enigmi mai troppo difficoltosi, anzi a volte fin troppo facili, ma che favoriscono di certo le fasi di gioco data l’assenza di qualsivoglia tipologia di spiegazione iniziale (nonostante la possibilità di ottenere suggerimenti) per una longevità non elevata: due o tre ore per il finale base, almeno altrettante per scoprire tutti i segreti, raccogliere i collezionabili ed arrivare al finale alternativo. Ore bellissime se si apprezzano titoli particolari e sopra le righe, quindi se si adora il genere puzzle; decisamente meno se l’assenza di input, problema che potrebbe riguardare soprattutto il giocatore meno navigato, è considerata un punto cardine. Anche se assistiamo sempre più spesso a produzioni del genere che, tramite l’esplorazione e l’affidarsi alla nostra percezione di come fare le cose, di capire e comprendere il mondo di gioco, di quale sia lo scopo primo e ultimo che lo sviluppatore ha sapientemente inserito all’interno della sua opera, vogliono essere decifrate ed interpretate, spesso filosoficamente, per un risultato finale che potrebbe spiazzare in molti, se a supporto delle proprie esperienze ci sono conoscenze valide maturate nel tempo.
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