Davanti alla taverna una brigata chiassosa, tavoli con resti di pesce, tovaglioli spiegazzati, bicchieri ancora da svuotare. In mezzo a questa confusione di volti e mani e musica e svolazzare di grembiuli, vedo un uomo e una donna seduti davanti a una bottiglia piena per metà, immobili, come statue al confine di un pianeta separato. La barba bianca di lui prolunga il candore dei capelli arrivando sino al ventre, lievemente tondo; indossa un abito scuro, sguardo nell'ombra, affondato in pensieri che gli immobilizzano gli arti. Di fronte, la donna porta un basco inclinato sui capelli ancora più immacolati e folti di quelli dell'uomo. Porta un vestito color deserto, una collana di perle adagiata sul décolleté, su cui spiccano occhi trasparenti, certamente non di questa terra. Il viso è liscio, incredibilmente liscio, insensibile agli anni che devono essere così tanti da aver smesso di scorrere.
Sono loro due, una macchia pallida e una opaca, che sembrano a quel tavolo dall'inizio dell’inizio del mondo. Muti, eppure, tramite qualche procedimento misterioso, in reciproca comunicazione. Quel genere di comunicazione che non si serve più di gesti né di parole: una specie di tensione, di oscillazione che si trasmette su lunghezze d’onda troppo elevate per essere percepite da noi mortali. Sono loro due, corpi inerti, presenti soltanto a se stessi. E la vita che torna indietro, con il bagliore delle lampade che sembra quello a gas di giorni remoti, col lungomare deserto di voci e motori, per non turbare un momento che, fatti altri due passi, sembra il ricordo di un altro ricordo.
(Luglio 2010)