Karl Ove Knausgard, La mia lotta (1)

Creato il 05 gennaio 2011 da Fabry2010

di Michele Lupo

La mole è impegnativa ed è solo il primo di sei volumi. Il titolo, Min Kamp, sinistro. Le ambizioni da leggere fra le righe – in tutti i sensi. Ha un bel dire Knausgard che non voleva fare letteratura quanto piuttosto un esercizio (di verità) che avesse insieme il valore di un’esperienza: raccontare la sua vita, di bambino poi di adolescente, i difficili rapporti con il padre, i non avvenimenti più banali e quotidiani: omettendo quei problemi formali senza i quali non si dà arte né letteratura. Difficile parlare di trama, di plot infatti, sebbene qui non sia in ballo un qualche tifo per l’intreccio spettacolare o i colpi di scena: è che il rischio della noia – di cui l’autore in qualche intervista si è dichiarato consapevole – è lì dietro l’angolino di fine pagina. Volendo (ri)scrivere qualsiasi attimo della vita che la memoria ti riporta alla mente, ti esponi a quel rischio anche se ti chiami Proust – soliti paragoni sciocchi di una recensionistica imbarazzante.

Non che sia privo di talento, lo scrittore norvegese, di sensibilità psicologica e linguistica – a giudicare dalla traduzione, una lingua pulita, di educata chiarezza. Anzi, quando si ricorda di essere uno scrittore e si preoccupa di andare oltre la pedissequa narrazione di qualsiasi sospiro e deglutizione, il libro si ravviva, trova momenti di gradevole leggibilità e alcuni anche magistrali. Allora il romanzo (romanzo?) funziona, colpisce la forza calma e stringente con cui sentimenti e stati d’animo vengono triturati senza pietà. Colpisce l’ironia che si affaccia all’improvviso. Ed emozionano certi gesti decisivi anche se marginali: prossemica e cinesica dei personaggi, dicono molto, più degli aspri dialoghi.

Il racconto muove dalla morte del padre, figura decisiva per il narratore. La storia del loro rapporto, del narratore bambino con l’uomo del quale subisce l’attrito freddo e autoritario, assieme alla perizia visiva di molte descrizioni è la cosa migliore. Knausgard del (al) padre non risparmia nulla; coraggiosamente confessa quanto orribile sia stato il senso di vergogna che accompagnava le umiliazioni dell’infanzia – un sentimento peggiore della paura, lo definisce. La lotta di cui dice il titolo, è una lotta per scrivere, innanzitutto, lotta con le proprie condizioni di marito, padre a sua volta, lotta contro il caso che entra nella vita dello scrittore che vorrebbe non certo la felicità ma solo le condizioni necessarie a scrivere. Il carattere di sfida agonistica di questa vita si ripropone in un certo senso nel libro: l’autore ha fatto leggere a tutti i personaggi la storia prima di pubblicarla, senza omettere i dettagli più imbarazzanti.

Per non fare fiction, Knausgard ha finito con lo scrivere 3000 pagine (pubblicazione ancora in corso in Norvegia) passando da una cosa all’altra e seguendo il filo dei ricordi, lavorando sul dettaglio insignificante per restituire la sua storia in uno specchio che rendesse l’esperienza intelligibile – epperò, vi sono casi in cui riuscire significa fallire.

Stando alle dichiarazioni, Knausgard avrebbe cercato di colmare la distanza che separa l’autore come persona in carne e ossa dal narratore, ma perché questo genere di lettura sia appassionante sino in fondo bisognerebbe essere il Proust che i recensori hanno tirato in ballo a sproposito (a mio parere, nel caso specifico non c’è nemmeno la malafede, il servaggio dei circoletti editoriali: qua Proust non sanno proprio chi è). Del grandissimo linfatico della Recherche – solo uno dei tre o quattro giganti del ‘900 – non casualmente hanno scritto filosofi, come per Kafka. Quando Knausgard filosofeggia sull’arte, la vita e la morte invece non brilla per originalità. Se ci si chiede come mai tutto questo successo a fronte del fatto che Proust non lo leggono più nemmeno all’università, viene il sospetto che la risposta stia proprio nella banalizzazione (colta) con cui lo scrittore norvegese discetta di massimi sistemi. Stima per il talento narrativo, rispetto per le ambizioni, perplessità per la sproporzione con gli esiti letterari complessivi – o bisognerà attendere la fine del lavoro? mica uno scherzo, per il lettore dico.



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