Katie Holten: gli artisti hanno bisogno di poter “nascondere”

Creato il 20 gennaio 2013 da Greeno @greeno_com

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Katie, siamo testimoni di una sovraesposizione del tema ambientale, che lo centralizza da un lato, ma rischia dall’altro di ridurlo ad un prodotto ibrido di marketing. Qual è, invece, la missione dell’arte e cosa la rende differente dalle produzioni testuali “iperseduttive” tipiche della comunicazione ambientale contemporanea (ad es. la crescente pubblicità “green”)?

A differenza delle organizzazioni ambientali che sperano di diffondere un messaggio e convincere i consumatori a cambiare le loro abitudini, i miei lavori non pretendono di presentare “i fatti”. Non ho delle risposte assolute ed il mio lavoro non pretende di averne. Semplicemente mi chiedo cosa stiamo facendo sul pianeta e dove possiamo arrivare di questo passo. Il marketing ambientale, per sua natura, dovrebbe essere puntuale ed accurato, cosa che le mie opere tendono ad evitare perché raccontano una storia più ambivalente, e mentre cercano delle risposte finiscono sempre con lo scoprire nuove domande. Questa è una differenza, non c’è un risultato finale al mio lavoro. Un progetto porta ad un altro e poi ad un altro ancora, in un ciclo senza fine.

Le nuove generazioni di artisti mostrano un pensiero ecologico più complesso rispetto agli artisti dei decenni precedenti (come dimostrato dalle tue opere o da quelle di altri artisti come Tue Greenfort, Lucy + Jorge Orta, Nikola Uzunovski etc.). Come è nata la tua riflessione sull’ambiente nell’arte?

La mia pratica artistica è un’estensione di quello che sono. Sono cresciuta nell’Irlanda rurale e avevo le mani sporche di terra sin da piccolissima. Mia madre è giardiniera e artista floreale, perciò la casa era sempre piena di attrezzi per il giardinaggio e di piante. L’infinito ciclo delle nuove stagioni era onnipresente e l’erba veniva tagliata continuamente. Mentre crescevo, lo faceva anche l’Irlanda. Il Paese riceveva dall’Unione Europea grandi sussidi, che letteralmente spianarono la strada ad una crescita senza precedenti, che faceva costruire vorticosamente autostrade dove prima c’erano paludi o terreni coltivati. Ogni cosa è connessa, io credo che non si possa semplicemente togliere la campagna ai contadini e aspettarsi che loro continuino a vivere come prima, né sostituire le zone umide dove sono nati e immaginare che questo non abbia delle ripercussioni sul paesaggio e sulla gente.

Uso il mio lavoro per studiare i vari aspetti che mi interessano da vicino, dalle cose semplici (come funziona un oggetto) alle domande su come noi siamo in relazione con le persone intorno e con i più complessi sistemi naturali e artificiali che ci circondano. In un certo senso, il mio intero lavoro è una specie di investigazione su come io sono in relazione con determinati posti, così come la specie umana è in relazione con il pianeta.

Se gli artisti oggi presentano un pensiero ecologico più complesso, credo che ciò rifletta semplicemente la comprensione più approfondita che, come specie, stiamo iniziando ad avere. Negli ultimi cinquant’anni abbiamo visto un cambiamento senza precedenti nella presa di coscienza dell’impatto delle attività umane sull’ecosistema terrestre. Gli studi di diverse discipline, inclusa la fisica, la biologia, l’informatica, l’economia, ci hanno rivelato come ogni cosa sia profondamente connessa.

La rivoluzione industriale, la produzione seriale e la fabbricazione di oggetti con delle linee dritte (impossibili da trovare in natura) hanno creato un distacco tra la nostra relazione con la “natura” e i prodotti che produciamo e consumiamo. Prima della produzione massificata di beni c’era la sensazione intrinseca che rispecchiare le leggi della natura fosse la cosa migliore, se non l’unica da fare. Una volta non esisteva la separazione tra la “natura” e tutto il resto. Ogni cosa era natura. Purtroppo, quando abbiamo iniziato a separare il mondo vivente da quello costruito dall’uomo attraverso l’uso di termini come “natura”, appunto, abbiamo incominciato a considerare il mondo vivente come “altro”, invece che profondamente e intrinsecamente connesso alle nostre vite di ogni giorno.

Nelle tue opere l’ambiente non è mai un elemento di sfondo, semplicemente evocativo o suggestivo, ma è sempre l’origine di un codice, nel quale l’ambiente stesso e  l’uomo si incontrano, generando l’idea di “luogo”. Come la tua arte descrive figurativamente gli esiti di questo incontro?

Non sono legata a nessun mezzo in particolare e il mio lavoro prende qualsiasi forma che il contesto suggerisce. Una cosa che è costante nella mia pratica artistica è l’uso del disegno. In un certo senso, aldilà della forma finale che assumono, tutte le mie opere possono essere considerate dei disegni. Ho una concezione “allargata” di cosa è il disegno. Sono linee create su una pagina, nello spazio, su uno schermo, su un muro, camminando, volando, parlando, con la grafite, l’inchiostro, la sabbia, le pietre, il vento, il suono, l’etere, il tempo…Disegnare è un modo di tracciare quello che c’è, quello che dovrebbe esserci, quello che potrebbe esserci. È il modo più immediato che abbiamo per mappare le informazioni.

Mi piace farmi delle domande semplici ed esplorare le risposte. Ad esempio, quest’anno ad un certo punto sono rimasta shockata dalla velocità con cui passava il tempo, perciò mi sono chiesta: è possibile documentare questo passaggio? Ho iniziato a lavorare a Shadow Drawings, per vedere se fossi in grado di testimoniare lo scorrere del tempo semplicemente registrando le linee delle ombre che muovevano attorno ad un oggetto. Potevo letteralmente catturare il tempo, vederlo passare, rallentarlo, comprenderlo?

Questi disegni hanno portato alla creazione del Sun Clock allo Storm King Art Center di New York, che mostra – semplicemente e immediatamente – la terra che ruota e il tempo che passa. L’osservatore arriva ad usare il suo corpo per stabilire l’orario, e la sua ombra fa il resto. Il pianeta sotto i nostri piedi si muove costantemente attorno al sole. Il mondo ed il tempo si muovono lentamente rispetto ad un riferimento geologico ed invisibile, e simultaneamente ad un’incredibile velocità rispetto al 21^ secolo. Il tempo scorre, ma noi siamo fermi.

Le tue opere sono delle esplorazioni alternative del soggetto ambientale. Per tornare ai codici: non trovi che l’arte possa suggerire grandi possibilità al rinnovamento dei canoni espressivi utilizzati per parlare di ambiente? E come?

È complicato. Ho partecipato ad alcuni eventi qui a New York specificamente legati a questo tema. Ad esempio, qualche anno fa alla Columbia University furono invitati artisti, scienziati e giornalisti per confrontarsi e discutere della possibilità di far interagire le rispettive discipline. Sfortunatamente, molto spesso (anche inconsciamente) gli scienziati hanno la presunzione che gli artisti possano semplicemente disegnare dei diagrammi per spiegare le loro scoperte. Ma questo, di solito, non è il modo più interessante per un artista di pensare a come fare una nuova opera. Illustrare questo tipo di conclusioni è il lavoro di designer professionisti, ed esistono tanti lavori davvero interessanti e grandiosi fatti da gente come Mitchell Joachim, Laura Kurgan e Manuel Lima.

I giornalisti, d’altro canto, hanno un ruolo di grande potere e responsabilità, muovendosi fra il lavoro di ricerca, l’informazione scientifica e la cultura popolare. Le condizioni attuali di informazione costante 24 h al giorno / 7 giorni su 7 e l’avvento dei social media rendono le notizie accessibili a tutti, in ogni momento.

È difficile immaginare come gli artisti possano effettivamente avere un ruolo, finché il mondo dell’arte esisterà solo come un universo parallelo. Qui a Manhattan, ad esempio, il sistema delle gallerie d’arte esclude ogni discussione seria sull’ambiente. È considerata con un certo sdegno, come se un’opera che ha a che fare con l’ambiente piuttosto che con il “mondo dell’arte” non sia meritevole di essere chiamata arte allo stesso modo. Questo comporta che le opere che si occupano del tema ambientale vengano ghettizzate, etichettate come arte ecologica e trattate all’interno di queste categorie insulari, invece che come parte del sistema.

Un altro problema potenziale è che gli artisti hanno bisogno di poter “nascondere”. È parte intrinseca del nostro lavoro. Purtroppo questo, nel dibattito ambientale, non aiuta, poiché è vitale che i fatti siano evidenti e conservino la loro integrità così che il pubblico capisca esattamente di cosa si parla.

 

Nei tuoi lavori si trovano spesso alberi spogli (es. The Black Tree, Ghost Forest, Trees of the USA, Paths of Desire) e pianeti “sgonfiati” (es. Globes 2006 e 2008). Questo potrebbe suggerire che l’arte, rispetto ad altri linguaggi, è più immediata nel comunicare il rischio ambientale? E paradossalmente più vera?

Dipende. Sì e no. L’arte può essere immediata. Ma possono esserlo anche il disegno, la poesia, la musica o il giornalismo. Trovo che il disegno sia un potente strumento in grado di esprimere i contenuti ambientali in modo immediato e accessibile a tutti. Una grande quota informativa prodotta dal graphic design può essere diffusa molto rapidamente attraverso i social network. Le opere d’arte possono intrinsecamente contenere verità universali. Ma ogni opera è creata da un artista, un individuo, e quella “verità” rispecchia le sue credenze, le sue volontà, i suoi desideri, più di una verità oggettivamente vera.

Quali sono i tuoi prossimi progetti? Ti rivedremo in Italia?

Sì! Sarò a Venezia in primavera. Al momento mi sto occupando di un’opera pubblica per la città di Derry, nell’Irlanda del Nord. Una volta inaugurata mi sposterò a Venezia per lavorare ad un nuovo progetto. Nel 2003 ho rappresentato l’Irlanda alla Biennale di Venezia con l’opera Laboratorio della Vigna, un lavoro in situ che esaminava l’ecosistema della città. Il progetto includeva ricerche sul posto, incontri ed “escursioni” attraverso l’infrastruttura (culturale, politica ed ecologica) di Venezia e i suoi rapporti col mondo. Dieci anni dopo ritorno in città per esaminare l’evoluzione di questi sistemi e per provare a mappare la città.

Katie Holten è un’artista visuale che vive e lavora in tutto il mondo. Nel 2003 ha rappresentato l’Irlanda alla cinquantesima edizione della Biennale di Venezia. Le sono state dedicate mostre in numerosi musei come il New Orleans Museum of Art (2012), la City Gallery The Hugh Lane di Dublino (2010), il Bronx Museum di New York (2009), Villa Merkel di Esslingen (2008), il Nevada Museum of Art (2008) and il Contemporary Art Museum di St. Louis (2007).

Il lavoro di Katie è ispirato da fatti di natura sociale, culturale e ambientale: attraverso i disegni, le sculture, i libri e le performance artistiche, Katie trasforma con un tocco poetico gli eventi del quotidiano.  E’ interessata a creare opere che contribuiscano ad accrescere la consapevolezza sui “luoghi” (sia quelli naturali sia quelli costruiti dall’uomo) e a far riflettere sulla loro vulnerabilità nascosta nella vita di ogni giorno, alla scoperta delle inestricalibili relazioni tra il mondo umano e quello naturale nell’era dell’Antropocene.