Nel 1978 Keith Richards era nei guai fino al collo. In Canada, nella camera di hotel che condivideva con la compagna Anita Pallenberg, era stato trovato in possesso di una certa quantità di eroina, ed era stato incriminato di spaccio, accusa che poteva costargli sette anni di carcere. In pratica la fine dell’attività con la sua amatissima band, gli Stones. Alla fine se la cavò con due concerti benefici, ma lo scampato pericolo segnò l’inizio dell’uscita dal tunnel della droga, grazie anche alla separazione da Anita, la sua complice nella vita dissoluta che lo aveva portato alla deriva. Mentre il punk metteva fuori gioco (almeno temporaneamente) la maggior parte dei vecchi gruppi da classifica, con un colpo di reni lui e Mick Jagger registravano il disco di maggior successo della propria carriera, quel Some Girls spinto in alto dal ritmo nero del singolo Miss You. Il ritorno alla vita attiva comportò degli effetti collaterali, primo fra tutti lo scontro con Mick Jagger, che si considerava ormai a tutti gli affetti il leader della band. L’album successivo, Emotional Rescue, rifletteva in larga misura il coinvolgimento di Jagger per lo Studio 54 di NYC (dove aveva conosciuto la moglie Jerry Hall) e la disco music. L’album del 1981, Tattoo You, era composto da outtakes dei dischi precedenti, e non sono in pochi a considerarlo l’ultimo disco decente della band.
Nel 1983, dopo il debole Undercover, la band lasciò la Atlantic Records per firmare con la Columbia, che stava raccogliendo i frutti del successo universale di Michael Jackson, il più giovane dei Jackson 5.
È singolare come, mentre gli Smiths si impossessavano della scena britannica, i vecchi eroi delle classifiche, come Stones, Bowie, Genesis, Yes, dessero il peggio di sé, ed i Clash andavano verso lo scioglimento.
Clive Davis, il patron della nuova etichetta, vedeva Jagger come una potenziale alternativa a Jackson, e il cantante si lasciò volentieri incantare dalla sua visione. Quando Jagger si rifiutò di andare in tour per Undercover, per il segreto intento di registrare un disco solista, Keith Richards ne fu profondamente ferito. Dopo l’eroina e Anita, era giunta l’ora di mettere da parte anche l’amore per Jagger. Mick Jagger ebbe successo con il fragile She’s The Boss, ma la sua carriera solista non decollò mai. Richards formò una sua band, gli X-Pensive Winos, con l’aiuto del batterista Steve Jordan dei Blues Brothers, e registrò il primo disco, Talk Is Cheap (forse il migliore della sua carriera solista), nel 1988. Anche la carriera di Richards non decollò: il pubblico voleva i Rolling Stones, e quello i due compagni diedero loro. Una tribute band dei vecchi Stones, un gruppo che recitava sé stesso.
Della carriera solista di Richards resta un pugno di bei dischi: oltre a Talk Is Cheap, il Live at the Hollywood Palladium 15 December 1988, e Main Offender nel 1992. Poi più nulla, solo il suo charme.
La situazione oggi è differente: Richards non detesta più Jagger, ma i due convivono simpaticamente come due anziani coniugi che si sono prese le misure, a la Vianello e Mondaini. In più in entrambi si è riaccesa la passione per gli Stones, attraverso le esperienze del film di Martin Scorsese, Shine A Light, il concerto del 2013 di Hyde Park, le ristampe di Exile e di Sticky Fingers. Per cui questo nuovo, un po’ a sorpresa, disco solista di Richards, non rappresenta più come in passato una fuga dalla band, ma solo la ricapitolazione di tante registrazioni messe assieme dal chitarrista e dal solito Steve Jordan. Ancora più a sorpresa, nulla sembra essere passato in questi 23 anni (sì, mi pare impossibile, ma ho verificato e riverificato: sono passati 23 anni da Main Offender. A me pare al massimo un lustro: temo sia questa la vecchiaia).
Questo Crosseyed Heart (cuore strabico) è ancora suonato con gli X-Pensive Winos (anche se mi sembra che il nome non compaia da nessuna parte della copertina), assieme a Steve Jordan, Ivan Neville (tastiere, figlio di Aaron Neville, che fa una comparsata ai cori), Waddy Wachtel (quello di Warren Zevon), il vecchio sodale Bobby Keys (in quella che probabilmente è la sua ultima apparizione) e Norah Jones, passione particolare di Keef, in duetto su una canzone, Illusion. Il suono è identico al passato: ho provato a mischiarne le canzoni su un iPod assieme a quelle dei due dischi precedenti per ascoltarle in auto, e non si nota alcuna soluzione di continuo.
Non è il disco di una vita che da sempre mi aspetto da Richards (il quale, lo dichiaro, rappresenta un po’ il mio modello rock per eccellenza); il disco che il chitarrista avrebbe dovuto suonare con il suo grande amico Gram Parsons, il Richards di You Got The Silver e di We Had It All (quest’ultima cover la amo solo io, ma la amo forte). Richards se la cava rifugiandosi nel laid-back, nel gigione di sottofondo (con le dovute differenze) a la J.J.Cale. A parte questo, il disco è ottimo. Caldo come una notte della Louisiana, come il blues del sud, come uno degli ultimi dischi di un altro grande vecchio, John Lee Hooker.
Gli ingredienti ci sono tutti: il blues della breve e acustica title track, il country rock di Robbed Blind, il reggae di Love Overdue, il rock’n’roll a la Stones di Amnesia e Trouble, il folk di Goodnight Irene. Sopra ogni altra cosa le ballate, la vera grande forza nascosta di questo cuore strabico (Keef), che non può fare a meno di amare anche quando non dovrebbe: Suspicious, Just A Gift, Lover’s Plea.
Ora questo grande vecchio va a registrare un disco con gli Stones. La mia speranza è che invece del solito compitino per le classifiche, voglia (vogliano) registrare un ultimo, vero disco sincero. Sarebbe un bel commiato, per il rock’n’roll.
P.S.: approfitto dell’occasione per rinnovare il ricordo di un grande outsider che fra rock elettrico e ballate country mi ha sempre fatto pesare a Richards. Andate ad ascoltare i dischi di Calvin Russell, del Texas. E per rendere omaggio anche allo Stones meno amato del poker attuale, Ron Wood. Il suo I Feel Like Playing vale la pena di essere ascoltato.
Pubblicità: racconto di Rolling Stones su Long Playing, una storia del rock, e Perché non lo facciamo per la strada.