Suo padre, Shodo, è infatti sia maestro del tempio che dirigente di un centro ippico nei pressi di Nagano e se non fosse stato per il boicottaggio dovuto all’invasione russa dell’Afghanistan, avrebbe partecipato anch’egli ad un’edizione dei Giochi olimpici: quella di Mosca 1980. Il fratello minore di Kenki, Eiken, ha invece già provato le emozioni che si vivono durante un’Olimpiade gareggiando a Pechino nel 2008. Kenki però quattro anni fa non se l’era sentita di prendere parte a quell’edizione preferendo la vita spirituale e chiudendosi nella meditazione, ma con il passare del tempo il richiamo dello sport ha avuto la meglio e così ha deciso di non lasciarsi scappare per due volte di fila un’occasione così importante. ”Mi piacerebbe prendere qualcosa dalla mia esperienza olimpica da restituire alla società come un prete”, ha detto il giovane monaco. Le possibilità che offrono i Giochi olimpici di entrare in contatto con religioni, razze e culture diverse è infatti da considerarsi come un qualcosa che alimenta la conoscenza al pari di ore di meditazione.
Non si può negare che uno dei valori e delle potenzialità dello sport sia la sua tendenza all’aggregazione. Lo sport favorisce il contatto e l’unione, elimina quelle barriere che troppo spesso impediscono il dialogo tra etnie ed ideologie che per quanto siano differenti non è per nulla detto che siano incompatibili, ma che anzi, proprio per la loro diversità possono essere fonte di ispirazione e di riflessione. Kenki Sato ha poi dichiarato: ”in linea di principio, la mia setta consiglia di non dipendere da altri, ma per un momento, quando la competizione è finita, credo che sia molto importante ringraziare il mio cavallo e la mia famiglia”.