Kill Your Darlings: Generazione Ribelle

Creato il 14 ottobre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Matteo Vergani

1944. Stati Uniti d’America. San Francisco. Il giovane Allen Ginsberg, futuro poeta e scrittore capostipite del movimento letterario della Beat Generation, appena giunto alla prestigiosa Columbia University, fa l’immediata conoscenza del giovane scapestrato Lucien Carr, studente eccentrico ed impertinente con una grande insofferenza verso le istituzioni, il cui scopo è quello di risanare la letteratura eliminando i vecchi e sclerotizzati stilemi del passato in favore di una scrittura nuova, libera e sincera. Il giovane Ginsberg, inizialmente restio ad ogni forma di trasgressione, ben presto si ritrova ammaliato dal carisma e dal fascino del compagno di corso, il quale lo trascinerà in una girandola di provocazioni e di eccessi, partecipando a numerosi incontri a base di alcool, stupefacenti e letteratura proibita, durante i quali farà la conoscenza di altri artisti maledetti, tra cui il tossicomane William S. Burroughs e lo scapestrato Jack Kerouac. Il gruppo decide così di fondare una comune di poeti e scrittori con l’intento di creare azioni terroristiche contro il potere costituito, in nome della nuova letteratura. Ma ben presto le cose si complicano quando Carr si rende responsabile, apparentemente, dell’omicidio di David Kammerer, suo amante segreto. Piccoli artisti crescono. Anzi, meglio dire a tal proposito piccoli scrittori crescono. L’esordio alla regia di John Krokidas segna il pericoloso e difficilissimo tentativo di trasportare sul grande schermo per la prima volta in assoluto la genesi e la crescita dei protagonisti che hanno di fatto segnato non solo uno dei movimenti letterari più innovativi e rivoluzionari del ‘900, ma che hanno rappresentato ognuno un diverso modo di approcciarsi ad una scrittura fatta di eccessi, di soggettivismo e di attenzione per le diversità.

E sono proprio questi medesimi ingredienti che, conditi assieme, danno vita a Giovani ribelli – Kill Your Darlings, lungometraggio-manifesto del popolo beat degli anni ’40, dove però si è deciso non di descriverne lo sviluppo e l’impatto che ebbe su contemporanei e generazioni successive, ma bensì di usarne i protagonisti principali all’inizio della loro carriera, quando, ancora novellini, senza aver scritto nemmeno una parola, hanno iniziato ad entrare in contatto tra di loro e a porre il germe del cambiamento e della rivoluzione. La sceneggiatura, scritta dallo stesso Krokidas in collaborazione col compagno di università e amico d’infanzia Austin Bunn, dopo una gestazione durata più di un decennio, ha finalmente visto la sua concretizzazione in un’ottica di estremo realismo e attinenza al vero, in quanto ispirata non solo dai fatti di cronaca dell’epoca, ma bensì impregnata fino all’osso dai primi lavori letterari dello stesso Ginsberg, dove si respira appieno l’amore (spirituale, artistico e soprattutto sentimentale) per l’amico Lucien Carr. Giovani ribelli non si configura infatti come una fedele biografia, genere attualmente caro al cinema di cassetta, ma bensì tende a rielaborare in chiave fortemente (a volte forse eccessivamente) romanzata realtà e accadimenti specifici del periodo, spolverandoli con una sana dose di patina cinematografica che affonda a piene mani in numerosi registri stilistici che vanno dal genere noir (pensate allo John Huston de Il mistero del falco) fino al clima frizzante, scapestrato e rivoluzionario della Nouvelle Vague.

E sono proprio i fantasmi di Godard e di Truffaut a guidare la mano di Krokidas, il quale non nasconde la loro influenza esplicita in numerose sequenze e gustosi giochi di parole da puri cinefili, in un divertissement che nulla toglie però al tono cupo e drammatico che fa da sfondo all’intera vicenda. Numerosi ed abbastanza espliciti appaiono i rimandi al celebre L’attimo fuggente (a cui peraltro il film è stato accostato), soprattutto per il tema della setta dei poeti estinti che qui trova pieno compimento. Per fortuna distante anni luce dalla (pessima) recente trasposizione di On the Road di Kerouac, la pellicola è inoltre una chiara effige della diversità, in primo luogo sociale e al contempo sessuale, portando il tema dell’omosessualità fino a rasentare la pornografia esplicita, ma riuscendo allo stesso tempo (e miracolosamente) a trasformare i momenti più spinti in pure chiavi poetiche di sostegno alla storia. Il cast possiede uno spessore magistrale, a cominciare da quella gradita sorpresa che è il buon vecchio Daniel Radcliffe, il quale, dopo la penosa performance di The Woman in Black (2012), veste qui i panni di un perfetto Allen Ginsberg, ancora giovane poeta in erba alle prese con la propria crescita fisica, intellettuale e morale. Dane DeHaan, che qui dà vita all’emblematico ed ermetico Lucien Carr, appare forse un tantino stereotipato nel ruolo del cattivo studente, e anche i suoi modi da giovane dandy stonano alquanto. Strepitose invece le prestazioni di Ben Foster e Jack Huston (nipote del leggendario regista), rispettivamente nei panni di William Burroughs e di Jack Kerouac, personaggi eccentrici e straordinariamente somiglianti.

Michael C. Hall, svestiti i panni del serial killer Dexter, dà il volto al camaleontico David Kammerer, personaggio estremo in ogni sua essenza. Il film procede su di un ritmo altalenante, passando tra diversi stili e registri, sempre però mantenendo una sufficiente linearità ed omogeneità che permettono di creare un universo compatto ed estremamente estetizzato, questo anche grazie alla splendida fotografia di Reed Morano (capace di passare con disinvoltura impressionante tra i diversi blocchi stilistico-narrativi), le maniacali scenografie di Stephen H. Carter e il frenetico montaggio di Brian A. Kates (il quale fa un sorprendente uso del riavvolgimento delle immagini e del reverse come strumento estetico d’eccellenza). In tutto ciò, quello che forse da più nell’occhio e che appare come una fastidiosa scheggia nello schermo è proprio un eccesso di stile e di barocchismo, come se Krokidas volesse nascondere sotto un tappeto riccamente decorato le lacune e le imperfezioni (per la verità non del tutto assenti) di un prodotto che invece, con un minor gusto per la forma e qualche ritocco al contenuto, avrebbe potuto essere ancora più grande. Ma come si dice, non c’è fretta, d’altronde c’è ancora molta, moltissima strada da fare…


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