Killer Joe (di W. Friedkin, 2012)

Creato il 02 gennaio 2013 da Frank_romantico @Combinazione_C

Iniziare il nuovo anno (auguri) con la recensione di un film della passata stagione non è certo il massimo, ma di tempo per andare al cinema non ne ho avuto e di questo film ho voglia di parlare da un po'. Ammetto che per me non è facile, considerato che non è stato amore alla prima visione. Anzi, a dirla tutta, tra il marasma di sensazioni provate quella che ho sentito in maniera più forte, netta, definita, è stata il fastidio. Non è un difetto, credo si tratti anzi di uno degli scopi principali di una pellicola come Killer Joe: far provare fastidio allo spettatore.
William Friedkin è un regista del '35. Facciamo un rapido calcolo: sono settantasette anni di vita, cinquantacinque di carriera, venti film da regista. In altre parole un'esistenza dedicata al cinema. Anzi, al Cinema, quello con la C maiuscola. Il vecchio Will non solo è un'icona della New Hollywood ma anche un innovatore. Ha girato L'Esorcista nel 1973 e ha fatto paura a quella generazione e alle altre a venire. E da lì tutti lo hanno imitato e lo imitano ancora. Nel 1971 ha dettato le nuove regole del genere poliziesco con Il Braccio Violento della Legge, regole che da quell'anno chiunque si sia cimentato con il poliziesco ha seguito, e mai sazio ha deciso di bissare girando un capolavoro nel 1985 (più di dieci anni dopo) con Vivere e Morire a Los Angeles. Ha partorito vere e proprie ciofeche come L'Albero del Male o The Hunted ma anche gemme sottovalutate come il recente Bugs. E tutti questi film hanno (avuto) come unico comune denominatore una sorta di attacco agli usi e costumi sociali. Soprattutto americani, certamente, ma anche quelli universali. C'è una sorta di malessere sociale che scorre sotto la pelle di questa umanità che finge e non sa fare altro. Dietro il sipario borghese dell'apparenza. Malessere che si fa carne nel mondo suburbano abitato dai reietti. Che esplode attraverso la follia. Friedkin rappresenta questo malessere. Ce lo mostra senza preoccuparsi degli effetti che una simile visione potrebbe avere sui suoi spettatori, tra serio e grottesco, con pennellate weird su una tela iperrealista. Elementi talmente distanti da stridere tra loro una volta accostati. Film di questo regista urlano così forte da far male alle orecchie. E Killer Joe lo fa come non succedeva da tempo.
Chris Smith è uno spacciatore di droga che per pagare un debito decide di uccidere sua madre e intascare la relativa assicurazione a nome di Dottie, sua sorella minore. Per far ciò coinvolge suo padre Ansel e la sua matrigna Sharla e chiamano Joe, un poliziotto/killer efficiente ma molto costoso. E i problemi sorgono quando si tratta di pagare l'uomo.
Questo film è tratto da una piece teatrale di Tracy Letts, tra le altre cose sceneggiatore della pellicola. Non si può parlare di Killer Joe senza tenere a mente questo particolare. Questo perché l'ambientazione è tanto essenziale quanto irrilevante. I personaggi si muovono in scenari che definiscono attraverso la loro stessa presenza. Non il contrario. La famiglia Smith (anche detta "la famiglia qualunque") vive in una baracca che potrebbe essere, proprio come loro, una baracca qualunque. O una roulotte. Ma è la famiglia ad essere squallida, non la casa. Sharla va ad aprire a un Chris bagnato dalla pioggia sotto un temporale mentre lì vicino un cane ringhia e abbaia minaccioso. La donna è senza mutande. E'questo ad essere squallido, non la periferia in cui si trova la baracca o il suo interno trasandato e sporco. E' la volgarità nel linguaggio di Chris e l'aspetto di Ansel che mettono a disagio lo spettatore, non il loro contesto. Ed è proprio in questa qualunquista ambientazione, tra la sensazione di sporco che ispira i personaggi, che emergono le due figure principali di questa pellicola: la piccola Dottie e Joe Cooper, alias Killer Joe.

Si tratta di attori che si muovono su di un palcoscenico. La staticità delle scene, quasi staccate tra loro, quasi singoli atti in quel corpo unico ma eterogeneo che è il film, si scontra con il dinamismo dei personaggi che le abitano. Anime nere, direbbe qualcuno. Figure pasoliniane, direi io. Per questo Dottie spicca così tanto. Non sappiamo esattamente quale sia la storia di questo personaggio ma capiamo subito e chiaramente che non ci sta così tanto con la testa. La follia dell'innocenza, dalla pelle chiara e i capelli angelici. Verrebbe voglia di entrare nel film e di salvarla, perché per gli altri è poco più che un oggetto: "cauzione" per Joe, che corrompe sessualmente la ragazza nel tentativo di renderla sua; promessa di redenzione per Chris, delinquentello di borgata incapace. Per suo padre e la sua matrigna poi non è altro che merce di scambio, lasciapassare per la salvezza. Lei, in tutto questo, rimane imperturbabile, eterea come nei sogni di suo fratello, unico bagliore di una fotografia talmente cupa da rendere opaca persino la luce del sole. E il cane legato fuori dalla baracca in cui vive l'allegra comitiva continua a ringhiare e ad abbaiare minaccioso. Però l'ho detto prima: nei film di Friedkin il malessere esplode attraverso la follia e quell'esplosione si chiama proprio Dottie, sempre luminosa, dalla pelle chiara e i capelli angelici, che ora urla e fa paura, e noi capiamo che è finita perché il punto di non ritorno è ormai attraversato. Esplode e fa male la follia, come un dito stretto sul grilletto prima dei titoli di coda.
Joe invece è l'opposto. Joe è l'apparenza che nasconde il marciume sotto una patina di pulito. E' il diavolo vestito bene e dai modi eleganti: ti accorgi che è il diavolo quando ormai è troppo tardi. Non puoi più fuggire, e non puoi più salvarti. Come il diavolo Joe stipula un contratto col sangue: il pegno è l'anima di una ragazza innocente, che sa ma non comprende. Il diavolo che sublima il sesso e lo rende un'arma. La sua follia non esplode mai, è sempre lucida. Ma è follia violenta e malsana. Che in realtà Joe sia un poliziotto che fa il killer come "secondo lavoro" ci ricorda un po' Il Braccio Violento della Legge. Ci ricorda che non c'è salvezza né tra i reietti né tra i borghesi (L'esorcita), né tra i delinquenti né tra chi la legge dovrebbe farla rispettare. Un mondo dal cuore selvaggio, parafrasando il famoso film di Lynch. Ammettiamolo, Joe è il cinema di Friedkin che si fa carne. Una rappresentazione vivente della sua poetica. Ci mette a disagio sia quando sorride che quando colpisce una nazione dritto al cuore con una scena di fellatio che vede come protagonista una coscia di pollo fritto. Grottesco, per alcuni ridicolo, per me la scena più malsana nella storia del cinema, più del pestaggio finale, più dell'immenso sorriso che si apre sul volto di questa figura ambigua quando scopre che la sua opera di corruzione ha attecchito non solo sulla giovane ragazza, ma su un'intera famiglia. E il cane continua a ringhiare e ad abbaiare minaccioso lì vicino.
Il film funziona ma non si digerisce. E' indigesto e ci vogliono giorni prima di metabolizzarlo, se ci si riesce. Altrimenti meglio vomitarlo via e basta. L'interpretazione di Matthew McConaughey è glaciale. Lo ammetto, in questo film faccio fatica persino a guardarlo. E' impressionante quanto l'attore si sia calato nel ruolo fino a diventare veramente Joe. Emile Hirsch invece fa un po' senso vederlo in un ruolo del genere. Si fa fatica a vederlo in qualsiasi altro ruolo da quando ha recitato in Into the Wilde. Però funziona, lui è bravo e il suo personaggio si fa odiare abbastanza per la propria inettitudine e supponenza. Menzione speciale per Juno Temple di cui ci si innamora al primo sguardo, che non è bella nel senso classico del termine e ha occhi che brillano di una luce strana, tra il sognante e il letale. Un cast di quelli solidi e ben amalgamato nella pessimistica fotografia di Caleb Deschanel (che ha curato la fotografia di alcuni episodi della serie I segreti di Twin Peaks, ma guarda un po'). E intanto a settantasette anni Friedkin ha girato questo film che molti altri registi più giovani e più sull'onda si sognerebbero. Non è piaciuto a tutti ma meglio così. I motivi per cui non possa piacere sono tutti validi e legittimi (il film è tutto fin troppo: fin troppo pulp, fin troppo gigione, fin troppo grottesco, fin troppo eccessivo, fin troppo teatrale), perchè il pedale dell'accelleratore è spinto fino in fondo e si sa che quando corri troppo, ti perdi alcune cose. Ma a ciascuno il suo


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :