La richiesta, che suona come un vero e proprio “sfratto”, sarebbe stata comunicata al sottosegretario di Stato per l’Asia centro-meridionale Susan Elliot durante un incontro nella capitale Bishkek, ma non sarebbe tuttavia un fulmine a ciel sereno: già in occasione del suo insediamento Atambaev aveva ribadito la sua contrarietà alla permanenza di truppe straniere sul suolo kirghizo.
Il timore, ha rivelato il presidente, è che quella base potrebbe diventare facilmente un bersaglio per i nemici degli Stati Uniti, ma, a dispetto di questa motivazione ufficiale, è chiaro che il nuovo Kirghizistan sembra più vicino a Mosca che a Washington, sia dal punto di vista militare che economico: ad esempio, sono stati i rubli russi ad aver sovvenzionato buona parte di una nuova centrale idroelettrica a ridosso della Valle di Ferghana, che, inaugurata nel 2010, consente al paese asiatico di essere autonomo a livello energetico.
Con la cacciata di Kurmanbek Bakiev nell’aprile 2010, Washington ha perso un prezioso alleato nello scacchiere dell’Asia Centrale ex sovietica. Protagonista nel 2005 di una delle tre rivoluzioni colorate dell’ex Urss, quella “dei Tulipani”, Bakiev si rivelò ben presto peggiore del suo predecessore Akaiev, instaurando nel giro di pochi mesi un regime fondato sul nepotismo, su legami con clan dediti al traffico di droga e armi e su una diffusissima corruzione, che avrebbe riguardato perfino la stessa Manas. Nel 2009, infatti, il parlamento di Bishkek aveva deciso di chiudere la base, ma un intervento in extremis dell’allora governo consentì un prolungamento del contratto di affitto sino al 2014: il sospetto è che l’iniziativa dell’esecutivo, più che da questioni diplomatiche, sarebbe stata dettata da un giro di tangenti.